Capita ormai spesso di chiedersi che cosa sarebbe successo se nel 2016, al posto di Donald Trump, avesse vinto Donald Trump. Perché di Trump ce ne sono almeno due, e quello della Casa Bianca somiglia poco a quello della campagna elettorale. Va detto, a (dis)onor del vero, che quando si trattò di sostituire Barack Obama capimmo tutti ben poco di quanto stava davvero avvenendo. Anche perché, a furia di correre appresso alle fake news, non siamo più capaci di vedere le news vere. Ecco per esempio che cosa diceva un illustre esperto di questioni americane: «Trump ha radicalizzato un linguaggio machista e di white supremacy che aliena fasce molto significative, donne e minoranze, che rappresentano un terzo dell’elettorato, senza il cui voto non si vince». Appunto.
E proprio lì, forse, stava l’errore. Perché le presidenziali americane non sono mai solo americane, e quelle del 2016 meno che mai. Avremmo potuto intuirlo, a suo tempo, andando a caccia non di ciò che li divideva ma dei temi che i candidati principali, Clinton, Sanders e Trump, avevano in comune. Pur con accenti diversi, i tre ponevano l’accento sull’impoverimento della classe media americana, sulla perdita di posti di lavoro e, di conseguenza, sul rapporto tra gli Usa e il mondo dal punto di vista della produzione e distribuzione di ricchezza, ovvero nei rapporti commerciali. Sarebbe stato impossibile, per un candidato, trascurare simili questioni. Perché tutti erano innamorati di Obama, tutti tessevano i suoi elogi, e certo il buon Barack si era trovato a gestire la disastrosa crisi economica maturata nell’era Bush. Però i dati erano, nel 2016, impietosi: il più basso tasso di occupazione degli Usa dagli anni Settanta; 14 milioni di posti di lavoro andati in fumo; una famiglia americana su cinque priva di introiti da lavoro; un deficit commerciale da 800 miliardi di dollari l’anno; i debiti delle famiglie per mantenere gli studi universitari dei figli a 1.300 miliardi di dollari, cioè raddoppiati nei sette anni obamiani.
Trump vinse perché con più chiarezza di tutti indicò nel rapporto tra gli Usa e il resto del mondo la causa dei problemi. Detto nei termini che useremmo noi europei: la globalizzazione guidata e diretta dagli Usa non funzionava più come un tempo. Fu l’unico a dirlo apertamente
Non è un caso se i comizi di Trump e di Sanders nelle zone industriali del Midwest erano spesso sovrapponibili, soprattutto nella critica alla delocalizzazione industriale. Nè lo era il fatto che sia Trump sia la Clinton, sia pure con accenti diversi (più radicale il primo, più sfumata la seconda che, quand’era segretario di Stato, li aveva invece esaltati), criticassero i grandi accordi commerciali come il Nafta e il Ttip, chiedendone l’abolizione o la revisione. Trump vinse perché con più chiarezza di tutti indicò nel rapporto tra gli Usa e il resto del mondo la causa dei problemi. Detto nei termini che useremmo noi europei: la globalizzazione guidata e diretta dagli Usa non funzionava più come un tempo. Fu l’unico a dirlo apertamente. Tutta la sua campagna (compresi gli elementi folcloristici che, ovviamente, attrassero l’attenzione, tipo il muro al confine col Messico) trasmetteva quel messaggio. Mentre i programmi della Clinton e di Sanders erano assai più conservativi e alla fin fine riproponevano, con toni magari anche nobili, le ricette fin lì applicate. I parametri di un “secolo americano” col fiato più corto in un mondo diventato ormai multipolare.
Certo, il Trump del 2016 può essere criticato finché si vuole. Le sue ricette potevano essere sbagliate. Ma perché chiamarlo isolazionista? Isolazionista lui, i partiti cosiddetti “populisti” della vasta porzione di Europa che protesta, i Paesi della Ue che sempre più spesso si ribellano alla Ue? Il Regno Unito della Brexit? Non è strano essere isolazionisti ma in vasta compagnia? E non ci dice nulla che a Davos, tempio del mondialismo finanziario, a difendere la globalizzazione e l’attuale equilibrio internazionale sia andato Xi Jinping, il presidente della Cina che vuole a sua volta costruire il “secolo cinese”? Insomma, chissà che cosa sarebbe successo se alla Casa Bianca ci fosse quel Trump là. Magari un disastro, magari chissà… Invece c’è quest’altro, l’imitazione, quello castrato dall’establishment legato al complesso industrial-militare che, dal 1989, ha legato le proprie fortune alla “esportazione della democrazia”, ovvero alla globalizzazione spinta dall’interventismo politico e militare, con la Nato in prima fila. Ora si parla di terza guerra mondiale ogni due settimane ma in realtà gli Usa sono tornati agli anni Novanta. Non c’è grande differenza tra ciò che vanno facendo con l’Iran, la Corea del Nord o la Siria e ciò che fecero con l’ex Jugoslavia. La differenza la fanno gli altri, la Russia e la Cina, che oggi hanno strumenti e volontà ben diverse da quelli di allora.
I dazi contro la Cina, che funzionano un po’ meno, mirati come sono ai prodotti ad alto valore aggiunto tecnologico, mirano più a fermare la rincorsa dell’aspirante super-potenza asiatica che a mettere in equilibrio la bilancia commerciale. Anche per questo chiudere gli occhi su un mondo che è cambiato (per usare i luoghi comuni: globalismo) e non rendersi conto che forse occorre qualcosa di diverso (isolazionismo) non è la soluzione
Pure la “riforma” delle relazioni commerciali, così cara al Trump che fu, viene oggi usata dal Trump che è per un ritorno ai bei tempi in cui gli Usa dirigevano indisturbati l’orchestra. In qualche caso funziona: è bastato minacciarle con i dazi su alluminio e acciaio perché Francia e Germania chinassero la testa e si accodassero alla farsa del “caso Skripal” e alla narrazione della “minaccia russa” che tanto bene fa ai bilanci della Nato e tanto male a noi cittadini europei, e poi dessero il benestare ai bombardamenti sulla Siria. E i dazi contro la Cina, che funzionano un po’ meno, mirati come sono ai prodotti ad alto valore aggiunto tecnologico, mirano più a fermare la rincorsa dell’aspirante super-potenza asiatica che a mettere in equilibrio la bilancia commerciale. Anche per questo chiudere gli occhi su un mondo che è cambiato (per usare i luoghi comuni: globalismo) e non rendersi conto che forse occorre qualcosa di diverso (isolazionismo) non è la soluzione. Noi europei facciamo gli struzzi. Tante prediche ma poi, di fronte alle emergenze reali, paghiamo Erdogan e i libici perché si tengano i migranti, mettiamo i dazi alle importazioni dalla Cina, tagliamo salari e welfare. La Francia si è rifugiata nella monarchia (Macron), la Germania gioca sulla sindrome da assedio (tutti insieme contro i barbari alle porte), il Regno Unito è corso sotto l’ala degli Usa (Brexit), l’Italia un due tre casino oppure la rassegnata sottomissione alla Gentiloni (vedi bombe sulla Siria, che se no ci sgridano ). Ma per quanto potremo tenere, tutti insieme, la testa sotto la sabbia?