Avete lavorato tutto l’anno, chiusi in ufficio a combattere la frustrazione della routine, oppure siete sopravvissuti ancora a quella lotta per la sopravvivenza chiamata partita IVA. E adesso che fuori c’è il sole non vedete l’ora che arrivi il weekend per correre al mare o per starvene sul divano, birra e aria condizionata a palla, a guardare le partite del Mondiale russo.
E invece no.
Invece vi tocca alzarvi alle sei di mattina, e al posto dei bermuda e del paio di Havaianas vi tocca infilarvi la camicia che mette caldo solo a vederla e la cravatta che fa soffocare solo a guardarla. E poi dovete mettervi alla guida, a passo d’uomo lungo autostrade intasate dai tir, pezzando così tanto che un branco di anguille troverà rifugio sotto le vostre ascelle, mentre l’eco delle vostre bestemmie riecheggerà nel parcheggio dell’autogrill in cui, confusi dentro un battaglione di turisti dell’est martoriati da eczemi solari, troverete il cartello “fuori servizio” sulla porta del cesso.
Sono momenti e sensazioni che ben conosce chi ha più di trent’anni e per cui uno dei pochi piaceri della vita che rimangono – l’estate – è ormai funestato da quella sciagura nota come “matrimoni estivi”, che negli ultimi tempi ha assunto dimensioni completamente fuori controllo.
Intendiamoci: il problema non è certo la decisione di mettere su famiglia, che con questi chiari di luna economici è un atto quasi eroico; il problema, piuttosto, è quello che oggi, nell’era iperrealista dei social, il matrimonio è diventato.
Un tempo ce la si cavava con poco: la messa, il “si”, il riso, la macchina coi campanacci, una bella mangiata e poi tanti saluti fino al battesimo. Ma purtroppo oggi le cose sono cambiate, e il matrimonio ha assunto i contorni di un mostruoso cetriolone che volteggia per mesi nelle chat di WhatsApp per poi conficcarsi senza pietà nelle nostre terga innocenti, obbligandoci a recitare il ruolo di comparse in un kolossal melodrammatico completamente slegato dal mondo reale.
Intendiamoci: il problema non è certo la decisione di mettere su famiglia, che con questi chiari di luna economici è un atto quasi eroico; il problema, piuttosto, è quello che oggi, nell’era iperrealista dei social, il matrimonio è diventato
C’entra, come sempre, lo strapotere dei media: la TV, che con i suoi programmi spazzatura ha creato del nulla la figura del wedding-planner, un’anomalia antropologica frutto di una società che di razionale non ha ormai quasi nulla; ma soprattutto i social, nelle cui arene il matrimonio è secondo solo alla gravidanza come stratagemma per acchiappare cuoricini buoni ad auto-illudersi che a qualcuno importi davvero della nostra esistenza.
Fatto sta che il matrimonio oggi comincia settimane o addirittura mesi prima della cerimonia, quando quel buontempone di un vostro cugino o di un ex compagno di classe, nel cuore dell’inverno, crea il gruppo relativo all’addio al celibato del futuro sposo. In men che non si dica saltano i freni inibitori, e la chat diventa un lungo amarcord in stile “come eravamo”, dove si fa finta che non sia cambiato niente anche se in realtà è cambiato tutto. É quella che gli americani chiamano fauxstalgia, uno dei grandi fenomeni dei nostri tempi: visto che non siamo più capaci di creare qualcosa, ci accontentiamo di ricreare artificialmente il nostro passato, scadendo puntualmente nel patetico.
E patetiche – appunto – sono le scene cui dovrete assistere durante l’addio al celibato, anch’esso tracimato da pizzata al locale sotto casa ad un lungo weekend in esotiche località marittime all’insegna del vitellonismo più spinto. La goliardia sboccata, i gadget a forma fallica, le facce schifate delle ragazze davanti ai goffi e arrugginiti tentativi di abbordaggio dei vostri amici; e le facce rugose e distrutte la mattina dopo, le aspirine per il mal di testa, le borse sotto gli occhi arrossati, quel lacerante confronto tra attesa e realtà che fa capire, senza sconti, che una fase della vita si era chiusa da un pezzo e non c’era davvero nessun bisogno di riaprirla.
Ma è solo un breve, trascurabile attimo di auto-coscienza. Appena tornati ecco che nella casella della posta troviamo l’invito ufficiale con il link per la lista nozze online: ed è qui che ci attende la mazzata. Già, perché il matrimonio italiano moderno è essenzialmente un crowdfunding generazionale, un aumento di capitale con cui la prima generazione della storia ad essere più povera di quella precedente si finanzia le prime fasi di vita coniugale.
Alcuni lo fanno in modo più sottile, con l’iban discretamente posizionato in fondo alla pagina; altri più sfacciatamente – o forse più sinceramente – chiedendo un quantitativo di soldi fisso a persona, come fosse una cena di finanziamento elettorale.
Per noi però non cambia nulla: per non fare brutta figura l’esborso economico si attesta nell’ordine di alcune centinaia di euro, da moltiplicarsi per tutti i matrimoni cui sarete costretti a presenziare durante la stagione. Il risultato – basta fare i calcoli – è pari a una mensilità di stipendio, che magari sarebbe servito per andare in ferie e che invece bisogna impiegare per foraggiare i futuri sposi.
Un’attenzione ai dettagli talmente maniacale da far nascere un sospetto: che questa morbosa ricerca di una forma perfetta, questa trasformazione del matrimonio in ridondante feuilleton dove tutto viene vivisezionato nei minimi dettagli, serva essenzialmente a nascondere una drammatica mancanza di contenuti. Ovvero, una paurosa assenza d’amore
Ci sarebbe la possibilità di versare meno, con una donazione proporzionata al reddito tipo flat-tax (del resto, sull’invito, non c’è forse scritto che la nostra sola presenza è “il dono più bello”?): ma in pratica ciò significa trasportare a vita lo stigma del taccagno, rischiando addirittura di compromettere i rapporti con gli sposi.
Bisogna starsene buoni, insomma, e lasciare che il cetriolo faccia il proprio dovere fino in fondo, giacche’ qualsiasi movimento, qualsiasi sfida alla norma sociale causerebbe solo problemi ulteriori. Sorridere sempre, accogliendo ogni strampalato dettaglio dell’estenuante carnevalata spalmata su più giorni come fosse il prodotto di un genio creativo portentoso, dal rito indiano propiziatorio alla felicità dei due sposi al dress-code stile Grande Gatsby, dal ballo di gruppo cantando canzonacce care agli avi dello sposo alla mitragliata di selfie con la sposa da condividere immediatamente sull’apposita app di file-sharing che vi è stato intimato di scaricare.
Un’attenzione ai dettagli talmente maniacale da far nascere un sospetto: che questa morbosa ricerca di una forma perfetta, questa trasformazione del matrimonio in ridondante feuilleton dove tutto viene vivisezionato nei minimi dettagli, serva essenzialmente a nascondere una drammatica mancanza di contenuti. Ovvero, una paurosa assenza d’amore.
Non ci sono mai stati così tanti divorzi, eppure – anche tra i ceti medi e popolari – non ci sono mai stati matrimoni così studiati, organizzati, elaborati: forse è questa la prova finale della nostra definitiva riduzione a pura rappresentazione, svuotata di ogni barlume di sostanza.
C’è da sperare che il vino, almeno quello, sia di qualità.