Bertinotti: «I barbari? Magari ci fossero, sono gli unici che possono cambiare le cose»

La lotta di classe? C'è, ma la stanno vincendo i ricchi. Il fronte repubblicano? Non è una risposta al populismo, ma la difesa delle istituzioni. Intervista all'ex leader di Rifondazione comunista che non risparmia giudizi su governo e mercati. E che, nonostante tutto, è ottimista per il futuro

Quando l’onda del populismo si stava levando e i governi grillo-leghisti, Donald Trump o la Brexit erano ancora di là da venire Fausto Bertinotti era stato tra i pochi e il più preciso a prendere misure e contorni d’un sommovimento sconosciuto: a capire cosa mormorava quel vento di rivolta. È il marzo 2014, il Fronte nazionale di Marine Le Pen monta in Francia conquistando il voto operaio e contadino, strappando le periferie ai socialisti e raccogliendo l’umore, nero, del paese profondo. In un’intervista rilasciata a un settimanale della sua area, Gli altri, Bertinotti avverte: “Qui non è più questione di destra o sinistra, fascismo o antifascismo”, “Il conflitto si è spostato tra l’alto e basso. Il populismo è una risposta alla domanda che viene dal basso della società, cioè da parte degli esclusi, da coloro che sono stati tagliati fuori dalle élites”. E ammette: “Su questo ha ragione Marine Le Pen che deve il suo successo alla comprensione di questo cambiamento”. Il populismo vince “per la sua capacità di ricollocarsi a partire dal popolo”. Di rispondere alla “domanda che viene dal basso”.

La storia non è acqua: tu puoi anche aver fatto il presidente della Camera, il segretario d’un partito (Rifondazione comunista), frequentato qualche salotto e acquisito buon uso di mondo e società, ma alla fine resti quello che hai fatto e pensato per decenni: e Bertinotti è sempre rimasto un leader sindacale e un intellettuale socialista. Oggi il suo ufficio è all’interno di una palazzina elegante dietro piazza Ungheria a pochi chilometri in linea d’aria da Montecitorio, dove nelle stesse ore in cui parliamo si sta formando il governo Salvini-Di Maio. Bertinotti riparte da quel concetto chiave: il conflitto tra il sopra e il sotto. “Quando ne parlavo, nei termini da lei ricordati in riferimento a quella lontana intervista, eravamo ancora allo stato nascente dei movimenti politici che oggi chiamiamo populisti. Oggi il populismo ha una consistenza politica di massa e ce l’ha perché i temi, le parole d’ordine che agita sono divenute senso comune. Da qui anche l’idea di sovranismo e di democrazia diretta. Da qui l’idea della rivolta contro l’alto. L’antagonista sono le elite, il ceto politico e intellettuale dirigente. Schematizzo ma questa visione basta a vanificare il concetto di classe e archivia definitivamente il ‘900. Attenzione: non elimina il conflitto di classe – la lotta di classe c’è ancora è che la stanno vincendo i ricchi – elimina il connotato di classe nei ceti subalterni e lo inquadra in un conflitto generale tra il basso e l’alto. L’entità popolo diventa l’energia creatrice, la rete diviene la presunta forma originale dell’organizzazione di questo movimento. L’affermazione di questa cultura sul piano politico dimostra i infine una cosa: che democrazia e crisi sociale durevole non sono compatibili”.

La risposta al populismo della sinistra italiana potrebbe essere il fronte repubblicano: un arca che va da Paolo cento e Carlo Calenda, che ne pensa?

Mi permette di farle notare che la sua domanda è imprigionata da un fantasma?

Immagino non sia il fantasma che si aggirava per l’Europa un secolo fa…

Lei mi domanda che ne penso della risposta della sinistra al populismo. Io le rispondo che la sinistra non può dare risposte perché la sinistra non c’è. Il fantasma è la sinistra stessa. Di ciò che era la sinistra oggi resta solo l’ossessione della governabilità. La sinistra ha subito una mutazione genetica con la quale è fuoriuscita dalla società e dal popolo e si è costituita come forza di governo con l’illusione di poter essere l’unica forza di governo possibile. La sinistra è morta perché è confluita acriticamente in questa modernizzazione capitalistica.

Dove colloca la data di decesso della sinistra?

Questa storia comincia quando dall’Ulivo mondiale la sinistra si candida a governare la globalizzazione.

Insomma ad uccidere la sinistra avrebbero cominciato negli anni novanta Prodi e D’Alema

Non trascurerei di comprendere anche tutti gli altri che fino a Renzi si sono succeduti sino ad oggi. So bene che l’uno non è uguale all’altro, non fraintenda, ma tutti in comune sono stati animati da questa idea: noi ci candidiamo a governare la globalizzazione perché noi siamo più funzionali a questa globalizzazione delle destre. Capisce? Il centrosinistra confida che quelle della globalizzazione siano le magnifiche sorti e progressive.

Il suicidio della rivoluzione, diceva Del Noce

Esattamente: Del Noce scolpisce una frase tremenda: “Quando il partito comunista dismetterà una lettura di classe della società diventerà un partito radicale di massa”. Si sbagliava solo circa le massa. Che non c’è più. La presunta sinistra è senza popolo. È niente. La sinistra ha preteso di sostituire la sua cultura politica con la prassi della governabilità e si ritrova senza corpo, diviene appunto un fantasma. Ecco perché il fronte repubblicano di cui lei domandava non è una risposta al populismo, è solo la difesa d’ufficio dell’Europa, del simulacro delle istituzioni.

Lei Bertinotti chiama tutta la sinistra alla sbarra ma lei non si sente chiamato in causa? In fondo negli ultimi decenni lei ha ricoperto ruoli politico-istituzionali di primo piano entro questo quadro. C’è chi la accusa anche a sinistra di aver trasformato un partito come Rifondazione in un laboratorio stravagante: l’inseguimento dei bisogni secondari, la rivoluzione permanente dei costumi, Vladimir Luxuria eletto a icona rivoluzionaria…

Di errori ne abbiamo fatti tanti ma non riguardano quello che lei dice. Io voglio ricordare che mentre ci occupavamo di questo ordine di problemi, anche provocatoriamente, eravamo gli unici in tutto il mondo ad essere accolti nella firma dell’appello di porto Alegre per la critica militante a questo nascente capitalismo finanziario e avviammo allora, noi, in solitaria, la battaglia del reddito di cittadinanza coniugandola a quella per la riduzione dell’orario di lavoro. E poi certo noi siamo stati anche coloro che si sono fatti portatori dell’idea che la lettura di classe che Marx ci propone è necessaria rispetto alla rivoluzione capitalistica ma non è sufficiente. Occorre riscoprire il Marx della soggettività critica e del cambiamento per i diritti di tutti.

È non combattendo culturalmente per questo dunque che la sinistra è diventata una costola della Lega?

E’ non combattendo per questo, certamente, che la sinistra ha regalato alla Lega una parte della regressione del suo popolo. Io ho l’età per ricordare quando a Torino uno dei temi della lotta culturale in fabbrica era quella della liberazione dall’idea che l’omosessuale fosse un frocio, idea che invece in fabbrica era prevalente.

Il voto operaio alla Lega riguarda anche il timore dell’immigrazione incontrollata, l’ostilità non è per il colore della pelle ma per il formarsi dell’esercito industriale di riserva.

Un altro tema fondamentale ai tempi della mia azione sindacale era che l’immigrato non solo era tuo fratello, ma che tu operaio specializzato, torinese, colto, senza di lui avresti perso di sicuro. E’ avendo interrotto la connessione con il popolo attraverso lo smarrimento della chiave classista che abbiamo contemporaneamente smesso la battaglia politico culturale che andava fatta per elaborare un senso comune di nuova cultura verso cose che si affacciavano già decenni fa. Il disagio mentale per esempio. Io mi ricordo il conflitto che avemmo con nuclei importantissimi degli infermieri del manicomio di Collegno. Loro ci dicevano voi siete il sindacato, dovreste difendere noi e invece difendete questi pazzi scatenati che ci picchiano. Sono temi controversi che noi abbiamo regalato al populismo e questo perché avendo smesso di essere i difensori degli operai abbiamo cessato anche di esserlo di tutti i lavoratori, di tutti gli sfruttati e di tutti i diversi.

La persona prima della classe e prima dell’economia, sembra si sentire parlare il Papa

Ma guardi che la chiesa di oggi e questo Pontefice in particolare è incomparabilmente più in grado di confrontarsi con la regressione civile in corso delle forze della sinistra. Intendiamoci io oggi sento la necessità di una coscienza di classe. Ma non si può farla partendo da heri dicebamus. Questa coscienza di classe va indagata e trovata nelle nuove professioni, in quelli che vivono nella gig economy, nel lavoro a chiamata. Ascoltare e interpretare i nuovi bisogni, il nuovo disagio.

Lei diceva siamo stati i primi a sostenere il reddito di cittadinanza ma anche le grandi multinazionali come Google sono favorevoli a questa misura.

Guardi c’è sempre un’ala del capitalismo che per suoi fini converge con un obiettivo che è lo stesso del suo antagonista. Negli anni sessanta sulla Stampa di Torino uscì un editoriale a firma della direzione dove si proponeva la riduzione dell’orario di lavoro con la motivazione che senza una conquista di questo genere si regalava il consenso operaio ai comunisti. E’ chiaro perché la Silicon valley stia sul reddito di cittadinanza: è la frontiera più avanzata dell’innovazione da cui discende la riduzione della quantità di lavoro disponibile. Sanno benissimo che occorre un modo per lenire la tragedia di una disoccupazione che sarà sempre più di massa e che potrebbe generare forme di guerra civile. Ma una rivendicazione operaia è matura quando non solo rivendichi la tua soggettività ma quando il processo storico dello sviluppo delle forze produttive – scusi il linguaggio vetero marxista – è in grado di accoglierlo o di promuoverlo. Quando Ford inventa il modello T raddoppia i salari, perché capisce che deve implementare la domanda per vendere i prodotti. Il problema dunque è la direzione che prende il reddito di cittadinanza. Certo: il reddito garantito può diventare una delle mille forme della subalternità ma può essere assunto come elemento liberatorio se diretto a inclusione sociale, formazione, partecipazione interscambio di relazioni.

Di Maio e Salvini hanno chiamato governo del cambiamento la cosa nuova che è nata in Italia. Chi sono Di Maio e Salvini: è d’accordo con chi li definisce dei barbari?

No, non sono d’accordo perché io continuo a pensare che i barbari sono coloro a cui oggi è assegnata la possibilità di cambiare il corso delle cose. E questi soggetti non stanno sulla scena della politica, stanno nella terra della società. I barbari sono coloro a cui è stato sottratto potere, diritto, reddito, riconoscimento di possibilità di decidere della propria esistenza. Quando li dicono barbari Cinque stelle e Lega si indignano. Non dovrebbero, perché esserlo sarebbe meritorio, ma loro, purtroppo non sono i barbari che si attendono e si temono. Ricorda quella poesia di Kavafis? “Si è fatto notte e i barbari ancora non sono arrivati”. Quelli che erano attesi come tali non erano i barbari. Cinquestelle e Lega non hanno i titoli per fare paura.

Fanno paura all’Europa: il caso Savona, lo spread…

No guardi questa è una cosa grottesca. Le fibrillazioni cui assistiamo non sono generate dai populismi, sono generate – chiedo ancora scusa per il linguaggio desueto – dalle contraddizioni del sistema. In Italia questa contraddizione prende la forma di un conflitto contro l’establishment, in Spagna del secessionismo catalano o della consunzione per corruzione del governo Rajoy; in Germania c’è il logoramento del potere di Angela Merkel, in Gran Bretagna ha generato la Brexit. Dove sarebbe questa Europa che può incutere timore e scomunicare i non allineati. Grande è la confusione sotto il cielo direbbe il comandante Mao…

Che non definirebbe però la situazione eccellente

Perché non ci sono i barbari e il sistema si polarizza da un lato con la grottesca chiamata alle armi del fronte repubblicano e dall’altra con la richiesta securitaria di un maggiore potere dello stato nazionale. Entrambe le istanze hanno un medesimo fine: una politica di accompagnamento alla normalizzazione capitalistica. Mancano i barbari, gli unici in grado di rompere lo schema. Dov’è, mi chiedo, una proposta di drastica riduzione degli orari di lavoro, dove la proposta di una patrimoniale seria, o di un reddito di cittadinanza vero?

Lei Bertinotti scrive sull’ultimo numero di Alternative per il socialismo dedicato al 68, che siamo a un punto zero della sinistra e della politica e che ci sarebbe bisogno di una tabula rasa per ricominciare daccapo. Ora mi par di capire che gli unici titolati a generare un nuovo inizio sarebbero i barbari. Lei li vede? Chi sono?

Si li vedo. Li vedo in tutte le forme che nella società producono esperienze di autogoverno nella molteplicità dei riferimenti culturali: l’accoglienza, le case occupate, le esperienze di formazione, la gratuità, il dono, l’associazionismo. Esperienze in cui il cattolicesimo, lo dicevamo prima, è impegnato in prima linea. Il fiume della storia è potente e c’è una grande storia che sta ricostituendosi e riannodandosi con la fine dell’800 quando ovunque sorgevano leghe, comunità, associazioni di mutuo scorso. Ecco, allora come oggi, il basso si autorganizza di fronte alla dissolvenza. E’ questo il popolo che tutti vogliono far decidere a parole. Solo che i tecnocrati pensano che non abbia la strumentazione necessaria per farlo e gli altri, i populisti, che non ce l’abbia ancora.

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