Via alla 16.Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, sempre più densa, quantitativamente ricca, capillarmente pervasiva su tutta la laguna. Scongiurando il rischio emulazione milanese del Fuori Salone, i dati parlano chiaro: 71 contributi tra il Padiglione Centrale ai Giardini e l’Arsenale, 63 nazioni partecipanti di cui 6 presenti per la prima volta alla Biennale Architettura (è il caso di dirlo, partecipazione in pompa magna con tanto di sfilata di cardinali alla vernice per il Padiglione della Santa Sede, all’Isola di San Giorgio, a comporre un ideale trittico di esperienze con le edizioni Biennale Arte 2013 e 2015), e un numero incontrollabile di eventi collaterali nei meandri di Venezia e dintorni.
Il tema scelto per questa edizione dalle due curatrici irlandesi Yvonne Farrell e Shelley McNamara (Grafton Architects, Dublino) è Freespace, un concetto tanto elastico quanto di difficile traduzione, nonostante campeggi sicuro a gradi lettere in una varietà di lingue sulle sagome dei molti palazzi veneziani che ospitano eventi ed esposizioni in concomitanza con le sedi storiche di Arsenale e Giardini.
In Italiano Freespace è “spazio libero”, un’apparente contraddizione con lo spazio “disegnato”, “progettato”? Tutt’altro: “Freespace rappresenta la generosità di spirito e il senso di umanità che l’architettura pone al centro della propria agenda, concentrando l’attenzione sulla qualità stessa dello spazio” nelle parole delle curatrici, che nel loro Manifesto citano tanto il movimento Slow Food come paradigma di paziente osservazione e sensibile selezione, quanto le sedute in pietra che alterano le proporzioni della facciata di Palazzo Medici Ricciardi a Firenze per offrire spazio di munifica negoziazione dello status quo.
Ottimistico messaggio politico in un’epoca in cui la qualità architettonica dello spazio pubblico sembra venire dibattuta in modo meramente proporzionale alle barriere jersey che si ergono e al desiderio di introversione che dilaga ovunque nel mondo. Prevedibile palla al balzo presa da molti padiglioni che hanno affrontato il tema Freespace legandolo alle proprie nazionali contingenze: la Gran Bretagna si apre come isola permeabile costruendo un’estroversa terrazza al di sopra del proprio padiglione, una gradonata concentrica blu EU invade tutto il padiglione del Belgio, Israele innalza a paradigma della complessità i rituali nei luoghi sacri contesi tra diversi gruppi religiosi, gli Stati Uniti rivelano possibili canali di mediazione ambientale e antropologica dei propri confini.
In barba al politicamente impegnato, il Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale è andato alla Svizzera, che delle scomodità del mondo non ne vuole neanche sentire parlare
In barba al politicamente impegnato, il Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale è andato alla Svizzera, che delle scomodità del mondo non ne vuole neanche sentire parlare. Dall’esterno del rigoroso Padiglione ai Giardini progettato da Bruno Giacometti non trapela nulla al di fuori del titolo “Svizzera 240”. All’ingresso nessun pannello di spiegazione introduttivo, nulla più che una normale porta. Si inizia ad intuire che si sta entrando in una “casa” dall’accenno di parquet sul pavimento, le pareti bianche con tanto di battiscopa coordinato e prese elettriche. Una casa svizzera standard, nuova. Le prospettive iniziano a distorcersi percorso il primo corridoio, accelerando verso una porta troppo piccola o allontanando una cucina bianca per giganti, o ancora tentando di accendere un interruttore posto troppo in alto o aprire una finestra minuscola. In questa casa da Alice nel Paese delle Meraviglie al sapore di varichina tutto è normale, tutto perfettamente surreale. E terribilmente fotogenico.
Il giovane team curatoriale del padiglione (Alessandro Bosshard, Li Tavor, Matthew van der Ploeg, Ani Vihervaara) focalizza la propria attenzione sull’attimo in cui un alloggio è terminato ma non ancora abitato, invitandoci con questa installazione percorribile a fare un “house tour” che riflette sul concetto degli spazi domestici e sul potere della rappresentazione. La visita della casa è infatti solitamente parte integrante del processo di creazione e divulgazione di un alloggio di nuova costruzione: essa può avvenire di persona, con una simulazione video, ma più diffusamente tramite fotografia. Ma che cosa raccontano le foto di un ambiente ancora intonso, così simile a tanti altri? Architettura nuda e cruda, ovvero pura potenzialità.
Humour Svizzero? No, l’interesse dell’argomento nasce dal fatto che gli interni degli appartamenti contemporanei passano decisamente inosservati pur rappresentando l’espressione più diffusa del mondo costruito. La loro manifestazione si è fatta sempre più uniforme e omogenea nel tempo, man mano che le componenti tecniche dell’abitazione (radiatori, elettrodomestici, armadi, aste delle tende) sono scomparse all’interno della superficie architettonica. Come tante, “Svizzera 240” è un’architettura/white box progettata per abitanti ignoti, oggetti sconosciuti, vite di cui non si sa nulla. I curatori rivelano che proprio per queste ragioni essa è liberata delle sue funzioni – addirittura dalle scale convenzionali di rappresentazione -, è un’immagine potenziale. Un’interpretazione del brief curatoriale Freespace decisamente interessante, che lascia in forma di questione aperta il senso di uno spazio “banale” senza umana appropriazione. Il numero 240 del titolo? I centimetri dell’altezza minima – e più diffusa – che devono avere i locali nelle regioni elvetiche, of course.
Nota molto importante: la proposta per il Padiglione svizzero per la prima volta quest’anno è stata selezionata attraverso un concorso a partecipazione libera.