Il bastone. La generica inconsistenza narrativa degli scrittori italiani di oggi fa urlare al capolavoro di fronte ad autori stranieri semplicemente un po’ meno modesti dei modesti di casa nostra. L’esempio clamoroso è quello di Emmanuel Carrère, scrittore belloccio, mediatico, catodico, sopravvalutato: vorrebbe essere, forse, l’Albert Camus redivivo – autore, per altro, sufficientemente sopravvalutato pure lui – resta una specie di Serge Gainsbourg della letteratura recente, destinata a passare. Esempio. Un giorno mi scrive – quando mi scriveva, prima di obliarsi nell’orgoglio – Marco Missiroli. Leggi Lermontov è un capolavoro, mi dice. Lo leggo. Non mi dice niente. Esercizio ginnico-narcisistico di un narciso che scrive di un altro narciso. Un giorno ho sentito la lettura di Lermontov alla radio. Mi pareva l’imitazione di Michel Houellebecq. Altro sopravvalutato. Poi è la volta de Il Regno. Per deformazione mistica – traffico la Bibbia, da idiota – lo leggo, addirittura lo compro. E lo regalo al primo che passa. Pappa soporifera buona a imbambolare i puri di cuore. Ora. Nove anni dopo la prima volta (nel 2009 pubblicava Einaudi), esce in Italia Un romanzo russo. La storia, come si sa, mette in scena più storie. C’è il reportage sulla “storia di uno sfortunato ungherese che, fatto prigioniero alla fine della seconda guerra mondiale, ha passato più di cinquant’anni rinchiuso in un ospedale psichiatrico di una remota località russa”; c’è la storia del nonno di Carrère, rifugiato in Francia dopo il trauma della Rivoluzione russa, collaborazionista sotto tacco tedesco, morto nel 1944; c’è la storia di Carrère con Sophie, fatta di allegre masturbazioni telefoniche e di scopate inquiete. Quest’ultima storia, per inciso, è destinata a finire: galeotto sarà il racconto stampato su Le Monde, in cui lo scrittore, in un dato giorno su un dato treno, impone all’amata di eccitarsi (“ho deciso che sabato 20 luglio, sul treno delle 14.45 per La Rochelle, la donna che amo si masturberà seguendo le mie istruzioni”). Beh, lei non si eccita ma s’incazza. Piccola pausa con storia della letteratura francese in pillole. I francesi, da Montaigne a Pascal, giù fino al Marchese de Sade, a Rousseau, a Céline, tendono a romperci le palle coi fatti loro. Dissezionano le pulsioni, dissanguano le perversioni, riducono la psiche a uno zerbino. Questa è l’immancabile ragione del loro fascino: ci fanno scoprire schifosi, creature angeliche che amano crogiolarsi nel trogolo. Poi arriva Carrère, scrittore in carriera, che riduce il carisma della letteratura francese in un biberon buono a tutte le latitudini della stupidità. Scrittura asciutta? Macché, sciatta. Pensieri profondi come un fiume in secca (“arriva sempre il momento in cui comincio a pensare che la donna che amo non fa per me, che mi sono sbagliato, che c’è di meglio altrove”), sesso in quantità industriosa, dozzinale, per far presa sul pubblico borghese, guardingo e guardone (“Ti piace che prima di spingerlo dentro a fondo io lasci a lungo il glande tra le labbra, e in quel momento ti piace dirmi, guardandomi negli occhi, che hai voglia del mio cazzo nella tua fica”). E poi, insomma, la storia del collaborazionista è come un vibratore maneggiato per stimolare la lurida pruderie della critica letteraria. Un romanzo russo è troppo lungo per essere un articolo di giornale e troppo confuso per essere un romanzo. Diciamo che è lo scheletro di un romanzo possibile. Dei cazzi di Carrère, in effetti, e delle ossessioni del suo cazzo (un supermarket kitsch: “fare la spesa insieme a lei è una delle esperienze erotiche più intense che abbia mai vissuto. Ci fermiamo al banco delle primizie, io da una parte lei dall’altra, io scelgo la frutta, lei un’insalata, e quando alzo la testa, quando i nostri sguardi si incrociano, capisco che mi stava osservando, ci sorridiamo”) frega un cazzo a nessuno. Tranne che agli scrittori italiani recenti – notoriamente castrati, anzi, castranti.
Emmanuel Carrère, Un romanzo russo, Adelphi 2018, pp.284, euro 19,00
La carota. Ricordo che fu una folgorazione meridiana, radiosa, radicale. Molti anni fa. Milano. Stamberga di libri usati. Feltrinelli, collana ‘Biblioteca di letteratura’ diretta da Giorgio Bassani, traduzione di Guido Neri. Nota sull’autore. “Scrive, si può dire, da sempre”, latra la banda, “ha fatto uscire oltre novanta volumi”. Nato nel 1888, inquieto geologo delle piccole perversioni di tutti i giorni, compagno di via di André Gide e di Pierre Drieu la Rochelle, sentori di collaborazionismo sul groppone, cattolico trafitto dagli inferni (“Egli è l’alchimista del demoniaco”, lo bolla nel 1953 L’Osservatore romano), Marcel Jouhandeau è tra i più raffinati scrittori del Novecento, tra i grandi di Francia, uno che usa la lingua con crudele e sadica voluttà per tormentare se stesso e i suoi lettori. Anche Jouhandeau come Carrère ci racconta i fatti suoi. Solo che i fatti suoi, morbosi, diventano un morbo per noi lettori-guardoni, non possiamo sottrarci all’aurea tortura. Il libro che mi ha folgorato s’intitola Cronache maritali (riproposto, vent’anni fa, da Adelphi). Jouhandeau, con discinta superbia, racconta la cosa più difficile. La vita coniugale. Élise, la moglie – nella realtà, la ballerina Élisabeth Toulemont, amica di Jean Cocteau e di Max Jacob – è santa e puttana, icona e idolo da uccidere, bestia rara da scrutare con patologica dedizione (“‘C’è un mostro in me’, mi confessa, ‘e non è facile vivere con un mostro. Per questo mi tengo sempre occupata, e quando non ne posso più, cerco qualcosa da fare: se no, mi vedrei; e se mi vedessi, impazzirei’”). Adornato da un incipit indimenticabile (“Era così vera la mia grandezza, così pura, così alta, così inespugnabile. Ero una fortezza, e non sono più che una città aperta occupata dal nemico”), il libro, scritto da un omosessuale latente, carnalmente obliquo, fa a brandelli la quiete coniugale, con una mitragliata di frasi spesso indimenticabili (“Élise vuole un avvoltoio perché, così sostiene, io assomiglio a un avvoltoio”; “Finisco per convincermi che amare è solo un modo di odiare. Che attività, odiare! Una vera attività del cuore, una passione”; “Élise va dicendo ovunque che io sono sporco… La sento sempre più disposta ad amare chiunque altro che me”), che riducono l’erotismo di Carrère a una polluzione notturna, adolescenziale. Jouhandeau è troppo poco tradotto in Italia. Se fossi un editore, comincerei a pubblicare gli immensi ‘Journaliers’ di Jouhandeau, i diari di questo magistrale, spietato esegeta del cuore. Altrimenti. Sostituite Carrère con un altro francese, pubblicato da poco. Michel Déon. Classe 1919, accademico di Francia, nel 1970 pubblica Pony selvaggi, libro rapace e bellissimo, che racconta la storia di cinque atipici amici travolti dalla Seconda guerra (“abbiamo vissuto in mezzo alle fiamme, e ciò che avevamo di più caro è stato bruciato o inaridito”). Il libro è di traboccante vitalità, fitto di bastarde provocazioni (“Beati quelli che avevano perso tutto!… I carnai si sono rivelati un buon concime, e noi viviamo nell’abbondanza con l’unico timore di rimanerne soffocati. La grande paura non è più avere fame, ma mangiare troppo. La grande paura non è più di non fare l’amore quando ci prende il desiderio, ma di farlo troppo, e prima o poi rimanerne disgustati”). Nel 2009 le edizioni ‘de L’Herne’ hanno pubblicato un Cahier Déon, pieno di tonanti elogi. Tra i contributi, c’è anche quello di Emmanuel Carrère. Un suo fan.
Marcel Jouhandeau, Cronache maritali, Adelphi, 1999
Michel Déon, Pony selvaggi, Edizioni E/O, 2018, pp.480, euro 18,00