Al mondo non c’è pace possibile che non sia soprattutto una pace interiore. E la pace interiore si può trovare solo nel deserto. Così pensavano nel IV secolo, dopo la pace di Costantino, i monaci e anacoreti (uomini e donne) che abbandonarono e le città e si dedicarono alla vita solitaria, fatta di studio, digiuno e preghiere nei monasteri isolati. Divennero così, disprezzando la vita mondana, le comodità e i piaceri, i padri del Deserto. Di loro si trasmettono ancora oggi consigli e ragionamenti – ma non le opere perché, be’, non hanno fatto altro che vivere in un deserto.
Tra questi si distinse padre Pambone. Più che per il nome, per il fatto di essere discepolo di Sant’Antonio abate, il fondatore del movimento. Egiziano, scelse come destinazione il deserto di Nitrian, a nord-ovest del Cairo, dove prima di lui San Macario il Grande aveva già fondato alcuni monasteri. Anche Pambone ne creerà diversi. Nel giro di pochi decenni il deserto avrebbe pullulato di monasteri – diventando sempre meno deserto.
Ma ciò che impararono nel vuoto dei giorni duri in una terra arida vale ancora oggi: per il loro insegnamento non c’è limite che tenga. E chi cercasse una voce che sappia parlare al cuore, si metta in ascolto. Pambone sa dire sempre qualcosa anche quando non parla.
Fu così, ad esempio, che ammonì l’arcivescovo Teofilo. Quando costui arrivò a Scetis, dove viveva Pambone, i monaci si radunarono per salutarlo. E chiesero al santo: “dì qualcosa all’arcivescovo, perché possa essere edificato”. Ma il vecchio Pambone rispose: “Se non è edificato dal mio silenzio, non sarà edificato dalle mie parole”.
La parola, soprattutto quella non espressa, per lui è un’ossessione fin dalla sua giovinezza. Appena entrato in monastero, ancora analfabeta, chiese a un anziano “Insegnami un salmo”. Questi cominciò a recitare un salmo che diceva: “Terrò sotto controllo i miei modi, perché non commetta peccato con la mia lingua”. Pambone lo fermò subito. “Non voglio imparare il resto prima di aver appreso come applicare questo verso”. Impiegò almeno otto anni. Poi tornò per imparare il secondo verso.
Ma Pambone fu maestro poliedrico. Quando gli capitò di andare ad Alessandria, su richiesta dell’arcivescovo Atanasio, incontrò un’attrice/prostituta. Appena la vide si mise a piangere. A chi gli chiese il motivo, rispose: “Due cose mi fanno piangere: la perdizione di quella donna e il fatto che non mi preoccupo di piacere a Dio tanto quanto quella donna si preoccupa di piacere agli altri”.
Ma non solo. Pambone è una voce forte anche per i nostri tempi. Una volta fu raggiunto da due monaci novizi. “Padre”, gli chiesero “se digiuno un giorno e il giorno dopo mangio una pagnotta, mi salvo?”. Pambone non rispose. Provò l’altro. “Padre”, disse, “se tengo da parte una moneta per me e un’altra la do al monastero, mi salvo?”. Pambone non rispose di nuovo. Passarono quattro giorni e i monaci stavano per partire. Lui non aveva ancora parlato. Tornarono da Pambone. Stavolta parlò: “State per partire?”, chiese. “Sì”, risposero. A quel punto, con la testa china e scrivendo nella sabbia, spiegò. “Se Pambone non mangia per due giorni, è un monaco per questo? No. E se Pambone dona tutte le sue monete al monastero, diventa monaco per questo? Neppure”. Sospirò. “L’importante è avere un cuore aperto al prossimo”. Solo così ci si può salvare.