C’era una volta (e c’è ancora) il pianoforte. E ancora una volta il pianoforte si dimostra lo scrigno magico in grado di contenere tutta la musica. E non solo la musica, ma anche l’identità. Piccolo prodigio interculturale: il dialogo tra le varie anime della tradizione musicale europea (e mondiale) mostra le trasformazioni storiche, geografiche, il trascolorare dei confini. Il conflitto, anche, ma non in maniera rigida e ideologizzata. In una parola, appunto, l’identità nel suo carattere processuale, nel suo continuo farsi.
Il Festival Pianistico Internazionale di Brescia e Bergamo (diretto da Pier Carlo Orizio) arriva al gran finale. Domenica alle 19, agli Arcimboldi di Milano (anche se a Brescia e Bergamo proseguono le esibizioni con i giovani talenti dei conservatori). In programma Debussy, Čajkovskij, e Rachmaninov, che sono un po’ la summa dell’orientamento del festival dell’edizione 2018, racchiusa sotto il titolo generale: Čajkovskij mon amour. Prove di analisi e ripresentazione del dialogo tra la cultura russa e quella francese. 46 concerti in 14 location, otto orchestre ospiti, con un’altissima percentuale di giovani. E naturalmente tantissimo pianoforte, ben 16 pianisti in recital, dall’idolo internazionale Marta Argerich, ai giovani di talento.
E a proposito di giovani di talento: domenica sera a Milano sarà la volta di Federico Colli. Trent’anni, considerato l’erede di Arturo Benedetti Michelangeli, lanciato sul proscenio internazionale già da un po’. Con la Mariinsky orchestra diretta da Valery Gergiev, dopo Il Prélude à l’après-midi d’un faune, di Debussy, Sentiremo Colli nel Concerto in Re minore per pianoforte e orchestra n.3, op.30 di Rachmaninov e nella Sinfonia n.6 in si minore, op.74 “Patetica” di Čajkovskij.
E appunto, Čajkovskij e Debussy, autori che palpitano più o meno esplicitamente in tutto il programma del festival, sono qui ritratti da due partiture allo stesso tempo esclusive e popolari. Prélude à l’après-midi d’un faune e la «Patetica», sofisticate nella costruzione e ardite nell’ideazione tecnico-poetica, trovano però una complicità immediata nel pubblico. Il Prelude “indaga la terra di confine tra suono e timbro, tra voce e silenzio, tra ritmo e negazione del tempo (i ritorni tematici sono dieci: paiono infiniti e illimitati), tra armonia e smentita dei nessi tonali sostituti da solidissimi nessi coloristici” come scrive Angelo Foletto, introducendo la serata. Mentre la cosiddetta “Patetica”: “Funebre e riassuntiva. Intima fino alla disperazione, concepita di getto, rifinita con cura speciale nella strumentazione, e progettata con libertà formale di cui fanno fede i movimenti lenti che la incorniciano” rappresenta un modello di “requiem sinfonico” che già interpreta e prefigura il pensiero tragico Otto-Novecentesco.
Rachmaninov invece ci dà la misura del passaggio dal secolo dei nazionalismi a quello delle ideologie (e degli esperimenti sociali), in particolare con il suo grande classico (divenuto tale da quando nel 1946, fu sfruttato come colonna sonora cinematografica in Brief Encounter di David Lean). Suonato in pubblico dall’autore oltre centocinquanta volte, il secondo Concerto è il più popolare biglietto da visita della sua invenzione sontuosa e del gusto post-čajkovskijiano. L’Adagio sostenuto – il primo movimento composto – è una confessione plateale della vena lirica d’autore.
Un repertorio che sta a summa degli intenti del festival, e mostra la capacità, attraverso sempre nuove interpretazione di raccontare e restituire una fetta di cultura non solo musicale. Che questo si riesca a fare attraverso una grande e prestigiosa manifestazione popolare (perché in fondo la “difficoltà” della musica classica è pura mitologia) come il Festiva Pianistico dice tutto sul fatto che la tradizione musicale possa essere ancora presente, viva, e il suon di lei sia un universale fantastico al quale, ancora e sempre, è bello attingere.