La voce di Stefano Bizzotto, giornalista e telecronista sportivo ha raccontato sfide memorabili. In questo Giro del mondo in una Coppa ci accompagna attraverso capolavori dello sport, incontri mancati con il destino, grandi e piccoli momenti di tragedia, generosità e trionfo. Saliamo con lui sull’autobus di linea che accompagna i giocatori dell’Uruguay a disputare la finale del 1930; ci accostiamo al prato di Pasa-dena su cui scivola Andrés Escobar; ci fermiamo al semaforo londinese che suggerisce all’arbitro Aston l’idea dei cartellini; entriamo nello stadio Monumental mentre Daniel Passarella solleva la coppa, a poche centinaia di metri dalle celle dove i desaparecidos ascoltano la partita alla radio; scendiamo a San Siro, davanti agli occhi azzurro tenebra di Buffon, in lacrime per il Mondiale che non giocherà mai più.
Nulla può compensare la perdita dell’attesa, dell’ansia e della gioia che esplode in una sera d’estate, la luce azzurrina dei televisori tra le vie deserte, i bar che risuonano delle voci metalliche delle telecronache. Nulla se non le storie. Giro del mondo in una Coppa fa rivivere le partite attraverso le parole di Rivera e Mazzola, Thuram e Bierhoff, Paolo Rossi e Rummenigge; dipinge immagini con il profumo della pipa di Bearzot, la grinta di Tardelli, il genio spiritato di Maradona, la malinconia di Riquelme.
Quella che vi proponiamo è la storia di tre minuti – i più belli della storia – in cui il Brasile di Garrincha e Pelé segna e colpisce due pali contro l’Unione Sovietica. Sedetevi comodi: i Mondiali cominciano adesso
«Quelli a cui abbiamo assistito sono i tre minuti più belli nella storia del calcio». La frase è uscita sessant’anni fa dalla penna di Gabriel Hanot. Non proprio un giornalista qualunque. Hanot, francese, è stato l’ideatore di quella che un tempo si chiamava Coppa dei Campioni e che da un quarto di secolo è conosciuta come Champions League. Tutti noi gli dobbiamo qualcosa. I tre minuti in questione sono quelli che danno il la a una partita giocata il 15 giugno 1958 a Göteborg, Svezia. Brasile-Unione Sovietica, chi vince ha la certezza di passare ai quarti di finale del Mondiale. Perché i tre minuti più belli di sempre? Bisognerebbe chiederlo a chi c’era. Intanto il merito è tutto del Brasile. I sovietici in quei 180 secondi non toccano letteralmente palla. La Seleçao segna un gol e colpisce due pali. Giocate da urlo a velocità siderale. Mai visto un calcio così coinvolgente. Spettacolo puro.
È un Brasile riveduto e corretto rispetto alla squadra delle precedenti partite contro Austria e Inghilterra. L’allenatore Vicente Feola, che di secondo nome fa Ítalo e vanta origini salernitane, ha sostituito due quinti dell’attacco: fuori Joel e fuori il centravanti che in Brasile chiamano tutti «Mazola» (sarebbe un omaggio al grande Valentino, ma una zeta si è persa per strada) e all’anagrafe è registrato come José Altafini. Al loro posto, due che in Svezia non dovevano nemmeno esserci. Hanno nomi piuttosto lunghi, secondo la migliore tradizione sudamericana: Manoel Francisco dos Santos e Edson Arantes do Nascimento. Stiamo parlando di Garrincha e Pelé. Se fosse stato per la commissione medica messa in piedi dalla federazione, non avrebbero mai fatto parte dei ventidue. Il loro quoziente intellettivo, così come emerso dai test attitudinali a cui sono stati sottoposti, è discretamente inferiore al minimo tollerato dai signori in camice bianco. Se per Edson Arantes eccetera è anche, se non soprattutto, una questione di età (diciassette anni appena, non dimentichiamolo), il suo collega sembra rappresentare un caso senza speranza. Per esempio, non è riuscito a distinguere una linea verticale da una orizzontale. «Ha la psiche di un bambino di quattro anni, non sarebbe in grado di fare l’autista di tram»: questa, più o meno, la sentenza della commissione. Senza considerare il suo vissuto: nato in povertà, cresciuto peggio, dedito all’alcol. Garrincha è il nome di un passerotto tropicale di colore marrone e nero, un uccellino che si ciba di insetti e ragni. Siccome da bambino indossava ogni giorno la stessa camicia, qualcuno lo chiamava anche «Camisinha». Più avanti diventerà semplicemente «Mané».
Altri segni particolari, una gamba più corta dell’altra. E di parecchio: 6 centimetri, conseguenza della poliomielite di cui ha sofferto da bambino. Però con il pallone ci ha sempre saputo fare, fin da quella specie di provino andato in scena al centro tecnico del Botafogo. Storia di qualche anno prima: lui schierato da ala destra nella squadra delle riserve opposta ai titolari. Il terzino sinistro con cui deve vedersela si chiama Nílton Santos, il più completo al mondo nel suo ruolo. Talmente completo, per mezzi tecnici e intelligenza calcistica, che un giorno si meriterà il soprannome «A Enciclopédia». Primo incrocio fra i due: Nílton Santos va incontro al ragazzino, cerca di portarlo verso l’esterno per poi sottrargli il pallone. È quello che ha sempre fatto, nel club e in nazionale, solo che Garrincha estrae dal cilindro una finta micidiale, lo sbilancia e fugge via. Sarà stato un caso, figurati se il grande Nílton Santos ci ricasca. Secondo incrocio, stavolta il ragazzo con una gamba più corta dell’altra sceglie una soluzione che potrebbe passare per una mancanza di rispetto: tunnel al terzino sinistro più forte del mondo e altra scorribanda sulla fascia. L’uomo chiamato Enciclopédia ne ha le scatole piene, vorrebbe ricorrere alle maniere forti ma non ci riesce: Garrincha gli sfugge di nuovo, stavolta dopo averlo scavalcato con un irriverente pallonetto. I pochi tifosi presenti restano a bocca aperta, Nílton Santos corre dai dirigenti del Botafogo e dice la sua: «Questo è un fenomeno, tesseriamolo subito prima che ci pensi qualche altra squadra». Poi torna dal suo avversario di giornata e lo richiama all’ordine: non si permetta mai più simili atteggiamenti.
Chissà perché la federcalcio brasiliana, alla vigilia del Mondiale di Svezia, ha tirato fuori la storia dei test attitudinali. Dadi, cubi, disegni e quant’altro. Tutto con la supervisione del dottor João Carvalhaes, professione psicologo. È lui a suggerire di lasciare a casa Garrincha. Quando gli ha chiesto di disegnare qualcosa su un foglio, il ragazzo ha tracciato un cerchio con attorno delle linee verticali. Era – o almeno avrebbe dovuto essere – la testa di Quarentinha, suo compagno di squadra nel Botafogo. D’accordo, non è una cima: ma per vincere una partita di calcio non servono chissà quali doti intellettive, basta saperci fare con il pallone e segnare un gol in più dell’avversario. Questo, almeno, pensa Vicente Feola. L’ultima parola è la sua, Garrincha resta nei ventidue, le sue giocate possono tornare utili. Una, in particolare: quando muove il bacino dando l’impressione di tagliare verso il centro mentre invece si porta la palla sull’esterno lasciando sul posto l’avversario. Un po’ quello che aveva fatto tanto tempo prima ai danni del grande Nílton Santos. In Brasile lo sanno, nel resto del mondo non ancora.
Prima di arrivare in Svezia, il Brasile fa tappa in Italia. Amichevole contro la Fiorentina, che nei due anni precedenti ha vinto lo scudetto ed è stata finalista in Coppa dei Campioni. Monologo sudamericano, i viola sono in vacanza. Sul 3-0, si scatena Garrincha. Alla sua maniera. Slalomeggia fra i difensori, supera anche il portiere Sarti. Tutti in piedi, resta solo da appoggiare il pallone nella porta vuota, ma a questo punto l’ala si ferma. Aspetta che un avversario, almeno uno, torni su di lui. Arriva Robotti e lui lo evita con l’ennesima finta mandandolo a sbattere contro il palo. Poi completa l’opera segnando la rete del definitivo 4-0. Pubblico in delirio, compagni di squadra un po’ meno. Parla per tutti Nílton Santos: «Non riprovarci, la prossima volta potresti trovare qualcuno che ti spezza una gamba». Parola più parola meno, quello che gli aveva detto dopo quella lontana amichevole titolari-riserve.
Arriva il Mondiale, arriva la partita con l’Unione Sovietica, arrivano «i tre minuti più belli di sempre». Alla fine sarà 2-0 per la Seleçao. Garrincha non uscirà più di squadra, così come Pelé. Peccato solo che fra i giocatori con la scritta cccp sulle maglie non ci sia un attaccante di cui si dice un gran bene. Uno che segna e fa segnare, che abbina tecnica e potenza come nessun altro. Si chiama Ėduard Strel’cov, gioca nella Torpedo Mosca, deve ancora compiere ventun anni. Sarebbe stato bello metterlo a confronto con Pelé e Garrincha. Nel 1956 Strel’cov ha vinto la medaglia d’oro all’Olimpiade di Melbourne. Anzi, non l’ha vinta perché ha saltato per scelta tecnica la finale contro la Jugoslavia, ma prima è stato devastante. Lui e l’altro attaccante della Torpedo, Valentin Ivanov. Alla vigilia della partita decisiva, Ivanov si è infortunato, e l’allenatore Gavriil Kačalin ha deciso che sarebbe stato meglio puntare su due attaccanti dello stesso club: fuori anche Strel’cov, dunque, dentro Il’in e Simonjan dello Spartak Mosca. Il protocollo olimpico prevede la consegna della medaglia ai soli giocatori in campo nella finale. Sulla via del ritorno, Simonjan vorrebbe fare il bel gesto di cedere la sua a Strel’cov: «In fondo l’hai meritata più tu di me». Il compagno non accetta: «Puoi tenertela. Chissà quante ne vincerò, io, nella mia carriera».
Non è un giocatore come gli altri, Ėduard Strel’cov. In tutti i sensi. Per la bravura che mostra quando gioca e per i suoi atteggiamenti fuori dal campo. Gli piace godersi la vita: alcol e donne, soprattutto. A vent’anni si è già messo alle spalle un matrimonio, nonostante un figlio in arrivo. Non piace per niente al partito. Il Partito comunista. In un mondo fatto di regole ferree e di steccati invalicabili, quale messaggio può arrivare da uno che le regole non le rispetta? Però gioca a calcio divinamente, e questo rappresenta il più efficace dei lasciapassare. Non cambierebbe maglia per nessuna ragione al mondo: la Torpedo è la squadra della fabbrica di automobili zil, niente a che vedere con Cska e Dinamo, espressione rispettivamente dell’esercito e della polizia. Una «provinciale», anche se gioca a Mosca le sue partite. Ma a volte anche le «provinciali» riescono a dare fastidio alle squadre più forti, a maggior ragione quando possono contare su attaccanti come Ivanov e Strel’cov.
L’Unione Sovietica ha una nazionale in ascesa, come dimostra il titolo olimpico del 1956. In porta gioca Lev Jašin, a dirigere il traffico a centrocampo provvede Igor’ Netto. Tutta gente nel momento migliore della carriera. Poi c’è lui, il giovanissimo Strel’cov. Settimo nella classifica del Pallone d’Oro 1957 subito dietro lo juventino John Charles. Il migliore per distacco fra i giocatori dell’Europa dell’Est. Il Mondiale di Svezia capita nel momento ideale, ma lui in Svezia non c’è. E non si tratta di un infortunio. Mentre l’Unione Sovietica affronta il Brasile, Strel’cov si trova nella cella numero 127 del carcere moscovita di Butyrka. È successo tutto una ventina di giorni prima, il 25 maggio, vigilia della partenza per la Scandinavia. Al mattino è prevista la prova delle divise che la squadra indosserà al Mondiale, poi tutti liberi; Strel’cov ha appuntamento con due compagni, Michail Ogon’kov e Boris Tatušin. Ai tre si aggiunge Ėduard Karachanov, un ufficiale dell’aeronautica militare appena rientrato da una missione all’estero. Un giro in città e poi tutti nella dacia di Karachanov. Ci sono anche delle ragazze, si prospetta una notte movimentata. Vodka e vino scorrono in abbondanza, e questo non aiuterà a ricostruire le ore successive.
Il giorno dopo è in programma l’ultimo allenamento prima di salire sull’aereo per Stoccolma. Strel’cov è già sotto la doccia quando gli dicono di fare in fretta: fuori c’è la polizia che lo aspetta con un mandato di arresto. Una delle ragazze presenti nella dacia di Karachanov, tale Marina Lebedeva, lo ha denunciato: stupro. Stessa accusa per Ogon’kov e Tatušin, tirati in ballo da un’altra delle giovani donne. Il più talentuoso calciatore sovietico precipita in un incubo. Prova a rimettere ordine nei ricordi della sera precedente, ma è tutto maledettamente difficile. Se solo non avesse bevuto così tanto! La squadra parte per la Svezia e lui è fra le quattro mura di un carcere: da impazzire. Lo portano in un ufficio dove lo aspetta il magistrato incaricato delle indagini. Sul tavolo, un foglio battuto a macchina. «C’è scritto che ammetti le tue colpe. Non ti preoccupare, firma qui e puoi raggiungere i tuoi compagni di nazionale. Per noi il caso è chiuso.» Strel’cov ci casca, firma e commette il più clamoroso autogol della sua vita. Adesso è a tutti gli effetti uno stupratore. Altro che Mondiale. Incastrato da questa Marina Lebedeva, una che mai aveva visto prima di quella notte e mai più rivedrà. Va un po’ meglio a Ogon’kov e Tatušin, perché la loro accusatrice ritratta tutto: basta per lasciare il carcere, non per tornare a far parte della nazionale.
«È soltanto un incubo. Adesso mi sveglio, mi vesto e raggiungo il resto della squadra.» Magari, compagno Ėduard. Purtroppo è tutto vero: la nazionale è partita per la Svezia senza di te. Il tempo non passa più, dentro il carcere di Butyrka. Gli scorre davanti il film della sua vita, si sofferma su alcuni momenti che in qualche modo potrebbero aver contribuito a fare di lui un detenuto in attesa di giudizio. Per esempio quando aveva saputo che Cska e Dinamo Mosca avrebbero fatto carte false per strapparlo alla Torpedo, e avevano ricevuto un secco rifiuto: mai nella squadra dell’esercito o in quella della polizia. «E se avessero deciso di farmela pagare?» Ma l’episodio del suo passato che più lo faceva riflettere era un altro. Risaliva ai giorni dei festeggiamenti per il titolo olimpico. C’era stato un ricevimento al Cremlino e Strel’cov aveva conosciuto Ekaterina Furceva, l’unica donna chiamata da Nikita Chruščëv a far parte del Comitato centrale del Partito. Insieme a lei, in quell’occasione, c’era la figlia Svetlana, di quindici anni. Completamente persa per il calciatore famoso. «Sarei felice se lei un giorno sposasse mia figlia.» Una proposta di matrimonio per interposta persona (e che persona!) che lo aveva lasciato a bocca aperta. Non ricordava esattamente cosa avesse risposto, ma era stato un rifiuto. In compenso ricordava che quella stessa sera si era lasciato scappare una frase del tipo «io quella scimmia non la sposerò mai». Forse qualcuno aveva ascoltato ed era andato a riferire tutto a Ekaterina Furceva. Forse il piano per incastrarlo era una vendetta della donna più potente dell’Unione Sovietica per lo sgarbo di tanto tempo prima. Forse.
Pensieri che si rincorrono fra i rumori assordanti che producono gli altri detenuti del Butyrka. Gente disperata, che sa di non avere un futuro. La testa gli scoppia. Fuori, intanto, sembra che debba svolgersi una marcia di protesta indetta dagli operai della fabbrica zil, tutti tifosi della Torpedo e fermamente convinti dell’innocenza del loro idolo. Fino a quando non trapela la notizia della «confessione» del giocatore. Intanto in Svezia ci si interroga sui motivi di un’assenza così improvvisa e apparentemente immotivata. «Ha ecceduto con la vodka ed è stato punito» azzarda qualche giornale occidentale. La replica di Kačalin, l’allenatore: «Ha giocato male le ultime partite, non meritava di essere qui». Mente sapendo di mentire: proprio lui, Kačalin, prima di salire sull’aereo aveva chiesto ai vertici del partito di congelare il caso fino al termine del Mondiale. Che la giustizia facesse pure il suo corso, ma solo dopo il ritorno del ragazzo in Unione Sovietica. Tutto inutile, era arrivato il niet di Chruščëv.
Il Mondiale prosegue. L’Unione Sovietica, sconfitta dal Brasile, accede comunque ai quarti di finale grazie alla vittoria nello spareggio con l’Inghilterra. Ad attenderla, il 19 giugno, trova la Svezia. L’ultima volta, le due nazionali si erano affrontate tre anni prima a Stoccolma. 6-0 per i sovietici, padroni di casa mai in partita. Tre gol li aveva segnati un attaccante di nemmeno diciotto anni, all’esordio in nazionale: Ėduard Strel’cov. Anche stavolta, come nella finale olimpica, a sostituirlo è Nikita Simonjan. Ma in Svezia non finisce come a Melbourne contro la Jugoslavia. I sovietici perdono e tornano a casa. Salgono sull’aereo per Mosca all’incirca nello stesso momento in cui anche Strel’cov sta per intraprendere un viaggio. Destinazione, Siberia. Il tribunale ha deciso: colpevole di stupro, dodici anni di reclusione. Non in carcere, ma in un gulag, a spaccare legna dalla mattina alla sera, con qualsiasi tempo.
Ėduard Strel’cov e Mané Garrincha, due che avrebbero dovuto incrociare i loro destini quel 15 giugno a Göteborg. È andata diversamente. È andata che mentre Garrincha vince il Mondiale, Strel’cov comincia la sua lunga detenzione nei gulag
In Svezia, intanto, si celebrano i giorni del Brasile. Il quarto di finale non accende la fantasia (1-0 contro il Galles, decide l’ormai insostituibile Pelé), poi però il dominio della Seleçao è totale: 5 gol alla Francia in semifinale, altrettanti alla Svezia in finale. Garrincha immarcabile con le sue finte, le stesse che tanto tempo prima avevano fatto impazzire Nílton Santos. Vendicato otto anni dopo il «Maracanazo», l’umiliante sconfitta a opera dell’Uruguay da cui un paese intero sembrava non doversi riprendere più. Nel giro di campo che segue la consegna della coppa, Pelé piange come un bambino fra le braccia del portiere Gilmar. Garrincha, invece, ha l’aria di non averci capito granché. Si avvicina al capitano Bellini e gli chiede il motivo di tutto quel trambusto. «Siamo campioni del mondo Mané, ti rendi conto?» E lui: «Campioni del mondo? Senza dover giocare la partita di ritorno?». Forse aveva ragione il professor Carvalhaes a proposito del quoziente intellettivo di Garrincha. Però non aveva tutti i torti nemmeno Feola a volerlo con sé al Mondiale…
Ėduard Strel’cov e Mané Garrincha, due che avrebbero dovuto incrociare i loro destini quel 15 giugno a Göteborg. È andata diversamente. È andata che mentre Garrincha vince il Mondiale, Strel’cov comincia la sua lunga detenzione nei gulag. Il primo a Vjatskij, un migliaio di chilometri da Mosca, temperature fino a 40 gradi sotto zero. Passato l’inverno, capita che nel gulag spunti un pallone. Qualche partitella, magari anche dei tornei. Ossigeno puro, per l’ex centravanti della Torpedo, che poi verrà trasferito in un campo di rieducazione più vicino alla capitale, con compiti fisicamente meno gravosi.
Arriva il 1960. L’anno del primo Campionato europeo per nazioni. Lo vince l’Unione Sovietica, ovviamente sempre priva di Strel’cov. Il centravanti adesso si chiama Ponedel’nik, che in lingua russa significa lunedì. La finale contro la Jugoslavia, a Parigi, comincia alle 8 di sera del 10 luglio, una domenica. A Mosca sono le 10. Si va ai supplementari, il gol decisivo lo segna proprio Ponedel’nik quando in Russia è già passata la mezzanotte. Il radiocronista, pazzo di gioia, non smette di urlare: «Lunedì ha segnato di lunedì!». Tutto questo, Strel’cov lo viene a sapere dalle visite che riceve nel gulag: chi lo va a trovare gli porta di tutto, generi alimentari ma anche palloni e divise della Torpedo. La vita è sempre dura, ma un po’ meno rispetto ai primi tempi. Quando, nel 1963, arriva la tanto attesa libertà vigilata per buona condotta, si è già giocato un altro Mondiale. In Cile ha vinto di nuovo il Brasile. Pelé si è fatto male quasi subito ma la squadra non ne ha risentito: un po’ per merito di chi lo ha sostituito, Amarildo, ma soprattutto perché Garrincha ha giocato su livelli ancora più alti di quattro anni prima. Come abbia fatto è un mistero: fuori dal campo si sta lasciando andare, il fisico non è più quello di un atleta, ammesso e non concesso che lo sia mai stato. L’avversario che non riesce a dribblare è l’alcol, lo stesso che in un certo senso è costato la carriera a Strel’cov.
Adesso Ėduard è di nuovo un uomo libero, ma non ancora un calciatore. Su di lui pende la squalifica a vita inflittagli contestualmente alla condanna per stupro. Gioca i tornei riservati agli operai della zil, la fabbrica della Torpedo dove ha cominciato a lavorare. E regala spettacolo. Non è molto, ma è meglio di niente. Poi, nel 1964, finisce l’era Chruščëv. Al Cremlino si insedia Leonìd Brèžnev, che dicono sia un grande appassionato di calcio. Non serve fare pressioni o raccogliere firme, ci pensa lui a togliere la squalifica. Strel’cov torna dopo quasi sette anni. Si è risposato, è ridiventato papà, ha qualche chilo in più e molti capelli in meno. All’inizio fatica, poi emana gli stessi lampi di classe di prima del «fattaccio». Si toglie perfino lo sfizio di vincere il campionato con la «sua» Torpedo. Sta per arrivare un altro Mondiale, quello di Inghilterra. Finalmente la possibilità, l’ultima, di sfidare Pelé e Garrincha. Invece no, c’è l’ennesimo ostacolo che si rivela insuperabile: il visto per l’espatrio. Il kgb pronuncia il suo niet, Ėduard resta a casa. E dire che l’Unione Sovietica ha uno squadrone. Arriva quarta, dopo aver perso di misura la semifinale contro la Germania Ovest.
Lentamente, si spengono i riflettori su un fuoriclasse dalla carriera più che dimezzata per un reato che forse non ha commesso. E anche sull’altro fuoriclasse, che ha vinto due Mondiali ma fuori dal campo si è rivelato un «giocatore» disastroso. Garrincha muore nel 1983, alle soglie dei cinquant’anni, dimenticato da tutti, anche dai tanti figli avuti da tante donne. L’autopsia dirà che gli organi vitali, dal cuore, al fegato, ai reni, erano irrimediabilmente compromessi dall’alcol. Ėduard Strel’cov se ne va nel 1990, il giorno dopo aver compiuto cinquantatré anni, portato via da un tumore alla gola. Anche lui non si è risparmiato nel bere, certo, ma a ucciderlo è stato soprattutto il gulag. I suoi ultimi minuti di vita li ha ricostruiti Marco Iaria nel libro Donne, vodka e gulag dando voce al figlio Igor: «Mio padre chiese di parlare da solo con mia madre, uscimmo dalla stanza e li lasciammo soli. Lui la abbracciò e le disse che non aveva mai fatto niente, che non era colpevole del reato per cui l’avevano condannato». Uno dei tanti misteri di quegli anni oscuri destinati a rimanere tali per sempre.