Il bastone. Io ci credo. E tiro fuori i soldi. Se Feltrinelli – l’editore che stampa Boris Pasternak, Malcolm Lowry, Hermann Broch – pubblica Loro, la sceneggiatura scritta da loro due, Paolo Sorrentino e Umberto Contarello, nella collana ‘Narratori Feltrinelli’, significa che il testo, narrativamente parlando, funziona. Indipendentemente dal film. E tiro fuori i soldi. Di solito, i libri di cui voglio scrivere li compro. Per evitare fraintendimenti, qualora li ritenga degni di stroncatura. Sono un poveraccio. Ma conosco le regole del galateo. Ecco. Dopo aver letto Loro – accuratamente, senza aver visto il film – mi sboccia dalla trachea, piroettando sulla lingua, un ‘ecco’. Ecco, mi dico, Einaudi non pubblica più le sceneggiature dei film di Michelangelo Antonioni, Garzanti non pubblica più le sceneggiature dei film di Federico Fellini – di cui Sorrentino si ritiene l’avatar, l’incarnazione sgarrupata – e noi dobbiamo sorbirci lo scemenzaio di Sorrentino+Contarello. Intendiamoci. La sceneggiatura è un bordello di banalità: scenette scontate (Fabrizio Sala a Candida: “Possiedi un nome?”, “Candida”, “E sei candida tu?”, “Per niente”), concetti di vertiginosa stupidità (“è innamorato di me proprio perché non gliela do”, specula Tamara, novella Diotima), vigoria da barzellettieri di serie B (Silvio Berlusconi: “Sei gay? Io non ho nulla contro i gay. Anzi, un 25 per cento di me è gay. Solo che è lvertesbica”). Insomma, con tutto il rispetto per il Premio Oscar, la sceneggiatura di Loro fa passare Luciano Salce e Michele Massimo Tarantini per dei registi di cinema ‘autoriale’. Il punto più grave, però, narrativamente parlando, è un altro. Sorrentino, cattivo scrittore ossessionato dall’ombra satanica di Silvio B (nel molto modesto Tony Pagoda e i suoi amici, Silvio B compare fin dal primo sketch piuttosto kitsch, Carmen Russo e Enzo Paolo Turchi, “Berlusconi è un artista”, gorgheggia Enzo Paolo, cui segue chiosa, “E io che mi ero illuso che facesse il politico”), ha l’uovo di Colombo in mano e fa la frittata. Intendo. Un regista ‘da Oscar’ decide di fare un film su Silvio Berlusconi, che, piaccia o meno, è il simbolo delle contraddizioni italiane degli ultimi trent’anni, è l’emblema di questa esistenza surreale, è il Napoleone in spot, liofilizzato in tivù. Per parlarne, ci voleva l’enfasi shakespeariana, o l’afrodisiaco grottesco di un Gadda. Ci voleva una sintesi, feroce, inaudita, tra Riccardo III e Macbeth e il Priapo Maccherone Maramaldo: una virile indagine nell’indomita brama di potere, una lubrica rubrica di perversioni, l’estasi nella risata, l’allucinazione della vecchiaia (ridotta a una Stella ventenne che dice a Silvio, arrapato, “lei ha l’alito di mio nonno”). Invece. Il climax della lite tra Silvio e Veronica si storpia in qualunquismo da rivista femminile (“Un uomo, un padre di famiglia che va con le minorenni cos’è? Il capo del governo di un paese che si riempie la casa di feccia e puttane che lo ricattano, cos’è?”, gorgheggia Veronica), e loro, il potente e la prescelta, paiono la copia smunta di Sandra e Raimondo, non fanno neanche ridere, non fanno neanche pietà. Insomma: Sorrentino scrive come un documentarista di serie C che fa una gita a trovare i nonni in una casa di riposo e la puntata di Un giorno in pretura dedicata al “Processo escort”, tra Gianpaolo Tarantini, Patrizia D’Addario, l’Ape Regina Sabina Began è più eccitante, intricata, determinata di Loro. Esito. Il film sarà magnetico, la sceneggiatura è mirabilmente soporifera, anzi, informe, disinformata, inutile. Sorrentino, paradosso cinico, ha imparato l’arte da Berlusconi. Conta la confezione mica la sostanza, conta il contesto mica il contenuto. Conta il pacco, accontentati, perché l’essenza è il vuoto, urlato. Eccolo. Il libro-pacco. The End.
Paolo Sorrentino e Umberto Contarello, Loro, Feltrinelli 2018, pp.218, euro 16,50
La carota. Intanto. Ripeschiamo dall’oblio le grandi sceneggiature dei grandi cineasti, quelli veri. Cominciamo da Fellini e da Antonioni. Poi. Fu l’estate scorsa. Riccione non è soltanto una piccola località balneare dove, insensatamente, un mucchio di gente si getta in spiaggia. A Riccione c’è il Premio Riccione per il Teatro, che ha premiato scrittori di lusso – ne cito quattro: Italo Calvino, Dacia Maraini, Pier Vittorio Tondelli, Stefano Massini – e che l’anno scorso, mestamente, ha compiuto 70 anni. Fu la scorsa estate, appunto. Per salvarmi dalla malaugurata foga marina. Calo nei penetrali della Biblioteca civica, che custodisce gli archivi del Premio. Sfoglio. M’inabisso. Scopro. Rewind. Valerio Zurlini è tra i più raffinati registi del cinema italiano. Palmares: Leone d’oro a Venezia per Cronaca familiare; Nastro d’argento per Il deserto dei Tartari; nomination a Cannes per La ragazza con la valigia. Il suo film più bello, però, se l’è scritto tutto lui, s’intitola La prima notte di quiete, con indimenticato Alain Delon. Intorno alla costruzione del film, Zurlini ha scritto un racconto, La prima notte di quiete di un Lord Jim casalingo, che piacque molto a Tondelli e che testimonia un vero talento nell’arte della scrittura. Un talento coltivato da anni. E qui veniamo alla fausta scoperta. Siamo nel 1951, Zurlini partecipa in forma anonima, con Lucio Chiavarelli, al Premio Riccione, che pagava bene. Ha 25 anni. Il testo s’intitola Storia senza titolo, e ha un ‘motto’ che ne specifica il contenuto, I mostri. Quell’anno l’edizione va a Tullio Pinelli, amico di Cesare Pavese e storico sceneggiatore di Federico Fellini; tra i “segnalati” spicca il giovane Enzo Biagi. Il testo di Zurlini – che non è ancora Zurlini – viene dimenticato. In realtà, è dolorosamente bello. Si parla di una ragazza maniaca di uomini e di libertà, con due fratelli ‘mostri’, menomati da un male ignoto, reclusi al primo piano della sua casa, al mare. A mo’ di rito letale e regale, la ragazza porta i morosi a casa, prima di darsi a loro, a contemplare la mostruosità dei fratelli. Tutti i vitelloni, canonicamente, scappano alla vista. La sceneggiatura di Zurlini è narrativa, molto scritta, con fughe esistenziali verticali (“Il passato spesso non lo abbiamo costruito noi. Noi non lo abbiamo voluto. Eppure pesa su questo presente. Spesso si nasce con la sorte segnata. Ma se questo male ci ha perseguitati e noi non abbiamo fatto nulla per meritarlo, ci si può condannare?”; “I rami degli alberi sembrano tante bianche matite ghiacciate… disegnavano una tela di ragno contro quell’azzurro cupo… vedi? mi diverte costruirmi da sola queste blande immagini di poesia a buon mercato… ho pensato a una Barbara con il diritto di illudersi, di conservare tutte le illusioni”). Il testo è spietato quanto basta. Ci sarebbe da farci un film – purché a girarlo non sia Sorrentino. Intanto, qualche editore potrebbe fare il piacere di farsi avanti, questa è roba buona.
Valerio Zurlini, Storia senza titolo. I mostri, testo inedito del 1951 conservato presso gli Archivi del Premio Riccione per il Teatro