C’è una cittadina, nel Sud Sardegna, di quasi 27 mila anime: Iglesias. Si trova nel bel mezzo della provincia che dal 2012 al 2014 si è aggiudicata l’ultimo posto in classifica per qualità della vita, la più povera d’Italia. Negli anni immediatamente precedenti, gli impianti industriali più rilevanti dell’area crollavano, uno dopo l’altro: Rockwool, ex Alcoa, Carbosulcis. È in questo contesto che Mauro Usai, 29 anni, neosindaco PD di Iglesias, si è formato politicamente. La prima tessera l’ha firmata a 16 anni nella Sinistra Giovanile, dove si era espresso a favore di un partito nuovo (il PD, appunto) che portasse avanti i valori del socialismo europeo. «Ma la vera svolta – racconta – è arrivata nel 2010, quando sono entrato nella Segreteria Nazionale dei Giovani Democratici e ho avuto modo di confrontarmi direttamente con politici di calibro nazionale, come Bersani e D’Alema». Da lì ha corso a ritmi sostenuti verso la Segreteria Regionale dei Giovani Democratici, poi nel Consiglio comunale della sua città fino a diventarne il presidente e oggi il sindaco.
È una vittoria piuttosto singolare per il PD, data la catastrofe delle ultime elezioni comunali.
Sì, arrivare al 52% dei voti è un buon risultato sia per il PD che per la sinistra italiana in generale, ma sarei un illuso se gridassi alla vittoria. Certo, il Movimento 5 Stelle ha visto un ridimensionamento se si pensa che in questa tornata elettorale ha raggiunto appena il 20% senza neanche arrivare al ballottaggio. Ma il consenso è ancora alto, si parla di più del 45% nelle ultime elezioni politiche solo nella mia città. Diciamo che a livello locale il voto di protesta si è diviso tra questi ultimi e Forza Italia, che ha registrato il 70% del consenso dei pentastellati. Hanno preferito la destra, seguendo la linea nazionale.
La sua candidatura è stata appoggiata da due personalità che sono l’una l’antitesi dell’altra e che in un certo senso ricalcano le due anime del PD: una progressista, impersonata dal sindaco di Cagliari Massimo Zedda (ex SEL, oggi indipendente di sinistra) e l’altra conservatrice nella figura di Giorgio Oppi (ex DC, oggi UdC). Come spieghi questo consenso trasversale?
Beh, intanto abbiamo iniziato col richiamare le persone che storicamente hanno sempre votato il PD. La mia figura, e la mia storia personale, hanno giocato un ruolo decisivo: io sono cresciuto con un padre che ha lavorato per anni nelle miniere della Carbosulcis, è stato un convinto attivista politico, prima nelle file del PCI, poi è stato eletto segretario cittadino dei DS. La mia politica riprende inevitabilmente questa tradizione, che si è fatta sentire in queste elezioni. D’altra parte c’è una formazione centrista, guidata da Giorgio Oppi, che ha visto in me una risposta moderata a problemi concreti, non un agitatore di piazza. Oltretutto penso che un candidato cattolico abbia molto a che fare con una politica riformista di sinistra.
In che senso?
Entrambi guardano ai più deboli. Come si fa a non riconoscere che in questo momento la gran parte del welfare è gestita dalle associazioni caritatevoli, che fanno capo al Vaticano? Bisogna dirlo. Io non sono un cattolico, ma penso sia possibile reimmaginare una sinistra cattolica – in senso culturale – e riformista. E in questo senso Papa Francesco si è dimostrato un rivoluzionario: si è avvicinato agli omosessuali, ai divorziati, ha scomunicato la mafia. Ecco, da qui dovrebbe ripartire la sinistra e tutte le forze democratiche riformiste. Devono scegliere di rappresentare qualcuno. Non esiste il “partito della nazione”, è un falso.
Quindi Renzi ha sbagliato?
Renzi è un forte sostenitore dell’individualismo, purtroppo. Si è sempre circondato di persone fidatissime, il cosiddetto “cerchio magico”. Ma la sinistra non è abituata ad avere il leader solo al comando. Noi vogliamo dei programmi che siano rappresentati dalle persone. Non crediamo nei progetti individuali rappresentati dai collettivi, ma nei collettivi rappresentati dagli individui che possono anche cambiare di volta in volta. Il leader deve essere una figura conciliante, aperta al dialogo. Qualcuno si è chiesto come mai Prodi ha sempre vinto contro Berlusconi? A vederlo non sembrerebbe esattamente un agitatore di popolo, eppure è una persona che dialoga. Renzi ha lavorato in modo eccellente sui diritti, ma ha esagerato con la propaganda: dire che gli 80 euro sono la più grande redistribuzione di reddito fa incazzare la gente.
Ma ha fatto anche cose buone?
Sì le riforme economiche erano buone, seppur con qualche riserva. Diciamo che si è giocato male la partita al tavolo europeo. Lui ha ripreso i 10 punti inviati da Bruxelles per rimettere in sesto i conti del Paese e li ha portati a termine. Però poi la flessibilità che avremmo dovuto ottenere in cambio, non l’abbiamo vista. A mio parere avrebbe dovuto mettere D’Alema come Alto Rappresentante per gli Affari Esteri, perché è una persona riconosciuta come autorevole anche in Europa. Così avrebbe davvero potuto gestire tutto quel processo di confronto sulle riforme insieme a lui.
Pensa ci sia un politico in grado di risollevare la sinistra a livello nazionale o internazionale?
A me piace molto Martina, penso sia un politico in gamba. La Coldiretti lo ha definito il miglior ministro dell’Agricoltura degli ultimi 30 anni. A livello internazionale guardo a figure come Berney Sanders e Jeremy Corbyn.
Durante la campagna elettorale ha parlato molto di povertà. E non a torto, dato che in Italia si registra il 6% di povertà assoluta e il 10% di povertà relativa. Come si esce dal tunnel?
C’è un politico che mi piace molto, Olof Palme, ex Primo ministro della Svezia che diceva: “I nostri nemici non sono i ricchi, il nostro nemico è la povertà”. La lotta di classe funzionava negli anni ’70, ma oggi il nostro vero nemico è la povertà. Anzi, ti dirò di più: noi alla ricchezza dobbiamo guardare con un occhio d’attenzione perché produrre ricchezza significa produrre lavoro, produrre crescita, produrre reddito. Per produrre ricchezza bisogna stimolare gli investimenti, il rapporto deficit-Pil al 3% è una cosa da cui non usciremo mai se non ricontrattiamo l’interesse sul debito che ci blocca i conti. Per produrre lavoro bisogna fare interventi strutturali e con questo rapporto è un’utopia. In Francia lo stesso rapporto è del 4,5%. Ciò significa che loro hanno un punto e mezzo in più in percentuale su cui è possibile giocarsi gli investimenti sul lavoro. Questa è l’Europa.
Quindi che si fa, usciamo dall’euro?
No, non è questa la risposta. Io sono talmente tanto europeista che voglio gli Stati Uniti d’Europa. L’armonia è un principio cardine che ricorre nei trattati europei, ma per armonia non si intende solo le condizioni dei conti e dei bilanci europei, ma anche quelle in cui si promuove lavoro e si sviluppa ricchezza, si gestiscono i lavoratori con gli stessi diritti e le stesse opportunità in Belgio così come in Francia e in Italia e via dicendo. Per fare ciò però è necessario che gli Stati membri cedano la propria sovranità politica nei confronti della BCE: non è possibile che ci sia Mario Draghi a risolvere i nostri problemi congelando i titoli di Stato e dando un minimo di liquidità. Serve un Presidente degli Stati Uniti d’Europa. Bisogna dare forza e senso alle istituzioni politiche europee. Le elezioni più sentite non devono essere quelle nazionali, ma quelle europee perché è lì che si misura la vera partita.
Renzi è un forte sostenitore dell’individualismo, purtroppo. Si è sempre circondato di persone fidatissime, il cosiddetto “cerchio magico”. Ma la sinistra non è abituata ad avere il leader solo al comando. Noi vogliamo dei programmi che siano rappresentati dalle persone
Tornando alla questione povertà, pensa che il reddito di cittadinanza possa essere una soluzione?
Francamente, penso che i 5 Stelle non sappiano neanche di cosa parlino quando parlano di “reddito di cittadinanza”. Usano quest’espressione per riferirsi a un’altra forma di sussidio alle famiglie meno abbienti, e cioè il reddito di inclusione sociale. Devo dire che in questo la Sardegna è stata pioniera, con la recente approvazione del Reis voluto dalla giunta regionale guidata da Francesco Pigliaru. Anche in questo caso però c’è un problema, e cioè: i comuni, ai quali vengono inviati i finanziamenti per portare avanti i corsi di formazione a chi – semplificando – non ha un lavoro o a chi l’ha perso, non dispongono del capitale umano necessario per la fase di monitoraggio dei richiedenti il reddito, che è fondamentale affinché il programma funzioni.E la flat tax?
La flat tax è una boiata, che si ritorcerà contro a chi l’ha voluta perché dopo aver abolito i vitalizi e tagliato sulle pensioni d’oro, poi si mette la flat tax e ridanno quei soldi.Un altro suo cavallo di battaglia è la “questione giovanile”, che in Italia registra picchi del 31,7%, ben al di sopra della media europea al 19,3%. Ha un piano?
Il piano giovani deve partire da investimenti strutturali, sull’economia. Ma penso che non debba essere dedicato esclusivamente ai giovani, perché le riforme sul mercato del lavoro in Italia generalmente son buone perché danno degli incentivi alle imprese. Ma non ci si può limitare a intervenire sulla fiscalità che riguarda le assunzioni. Io sono tra quelli che a livello nazionale col gruppo Sinistra Giovanile ha presentato una proposta di legge in cui c’è scritto che i contratti a tempo determinato devono essere quelli che costano di più e al contrario quelli a tempo indeterminato devono costare di meno. Ma questa è solo una parte. Tornando al PD, se parliamo di “Garanzia Giovani”: come fai ad andare da una impresa e dire prenditi dei tirocinanti? Con quale lavoro? C’è un problema di base: si è riformato un mercato del lavoro che non esiste, questo è il tema principale. Bisogna creare le condizioni perché si sviluppi l’impresa nel locale e una certa auto imprenditorialità da parte degli stessi giovani.L’hanno presentata un po’ come la “rivincita” del PD, e dei giovani in politica. È d’accordo?
Vorrei sfatare un mito. La questione giovanilistica non esiste e chi ne fa una bandiera politica sbaglia. Tutte le grandi rivoluzioni sono state portate avanti dai giovani: dal Risorgimento all’Unità d’Italia. Erano tutti giovani dai 20 ai 30 anni, perciò penso che questa sia l’età giusta per entrare in politica e parteciparvi attivamente.Quale sarà la sua “prima mossa” da sindaco?
Ho pensato all’Istituzione dello Sport dell’Europa per la ricerca di fondi europei, ma prima avrei giusto un paio di cose da sistemare in Comune [sorride].