Cultural StereotypeNessuna retromania o nostalgia: il disco pop di Johnny Marr non fa rimpiangere Morrissey

Con “Call the Comet” l'ex chitarrista degli Smiths riesce a scrivere il disco che ancora gli mancava. Quello in cui diventa un autore fatto e finito e non il pur geniale subalterno di Morrissey

Il mondo della musica pop ha ormai pochissime certezze. Una di queste, è che tra tutte le band che negli ultimi vent’anni si sono riunite dando il via a nuove carriere piene di soddisfazioni (del resto essendo diventati gruppi di culto e storicizzati, passano direttamente sui palchi grandi dei più importanti festival internazionali davanti a decine di migliaia di giovani che possono viverli sì in diretta e, al tempo stesso, in differita) mancherà sempre un nome, uno dei più importanti e, proprio per questo, più doloroso: gli Smiths. Mettiamoci l’anima in pace. Pur pronti a essere smentiti: Morrissey e Johnny Marr – di quel gruppo meraviglioso rispettivamente cantante e chitarrista – non si rimetteranno mai a fare musica assieme, ed è giusto così. Sono stati uniti solo una volta, negli ultimi anni, ed è stato per attaccare David Cameron, grandissimo fan della band, dicendo di non voler essere accomunati all’allora primo ministro (con Marr che gli risponde secco intimandolo di non osare mai più citare un suo pezzo in pubblico). La seconda certezza, in questi tempi di pop bianco ostinatamente retromaniaco e nostalgico, è che ogni anni almeno un vecchio grande nome della musica riesce a tirare fuori un disco che non puzzi di vecchio e che non sembri un compitino giusto per ottenere qualche buon ingaggio al Coachella o al Primavera Sound. L’anno scorso fu il caso di Thurston Moore, l’ex chitarrista dei Sonic Youth autore del bellissimo e coraggioso Rock n Roll Consciousness. Quest’anno – ad oggi – tocca proprio a Johnny Marr, che esce in questi giorni con Call the Comet (New Voodoo/Warner).

Mettetevi nei panni di Johnny Marr. Ha sostanzialmente inventato un modo di suonare la chitarra (chiunque sia passato dagli anni Ottanta e dalla new wave ha cercato di costruire canzoni pop attorno al suo modo di rovesciare gli accordi); ha messo la firma su alcune canzoni stupende capaci di resistere alla prova del tempo diventando le colonne sonore di storie d’amore dei millennials di tutto il mondo (tra tutte There is a Light that Never Goes Out, ovviamente); ha suonato con alcuni tra i più importanti gruppi alternativi di sempre (dai The The ai Modest Mouse) e ancora oggi tutti lo trattano come il dignitoso subalterno di Morrissey. Certo, le regole del divismo. Ma provate a sentire dal vivo l’ex cantante – e la sua band – e poi fate lo stesso con l’ex chitarrista. Qual è il “suono” che arriva di più? Esatto. È quella chitarra a costruire le architetture sonore che rendono i pezzi degli Smiths così unici e capaci di superare indenni i decenni e i cambi di stagione. Limitarlo a onesto comprimario è leggermente ingeneroso. Forse anche perché Marr non era ancora riuscito a scrivere un album all’altezza delle aspettative giustamente generate da un tizio capace di tirare fuori dal nulla i riff di This Charming Man, Bigmouth Strikes Again e How Soon is Now.

È quella chitarra a costruire le architetture sonore che rendono i pezzi degli Smiths così unici e capaci di superare indenni i decenni e i cambi di stagione

Prima di Call the Comet, Marr aveva sempre fatto roba molto “carina” ma sostanzialmente innocua. Una passabile sufficienza. Come Boomslang, il disco del 2003 a nome The Healers molto influenzato dal revival psichedelico manchesteriano un po’ troppo à la Stone Roses; oppure gli ultimi The Messenger e Playland, con un solo pezzo capace di farsi ricordare (Dynamo) e un po’ troppi riempitivi che spingevano il pubblico dei suoi concerti a chiedere a gran voce i pezzi degli Smiths. In Call the Comet, invece, si fa sul serio. Prima di tutto perché si skippa una sola volta – New Dominions, francamente inascoltabile – ma principalmente perché di canzoni pop fatte e finite, quei componimenti di tre minuti fatti per essere perfetti, cantati e ricordati, che ne sono almeno tre: The Tracers, primo singolo, una struttura circolare che gira attorno a un riff di chitarra aggressivo ma al tempo stesso atmosferico; Walk into the Sea, una immersione psichedelica in oceani di feedback che filtrano tutto il brit-pop degli ultimi vent’anni (che a Marr deve ben più che una pinta, diciamo) attraverso richiami shoegaze; ma soprattutto Hi Hello, vero e proprio ballatone fatto per essere un singolo di successo se solo i singoli avessero ancora successo.

È pressoché certo che se Johnny Marr venisse in concerto in Italia, quelle centinaia di persone che ancora si ricordano di lui da queste parti (a Londra, invece, dove è una vera istituzione, il suo concerto di Novembre alla Roundhouse – un’altra istituzione – è già esaurito) non aspetterebbero altro di sentire quei riff e quelle canzoni anche senza la voce di Morrissey – anche se posso assicurarvelo: dal vivo non si sente molta differenza, mentre l’assenza di questa chitarra ai concerti del cantante, si sente eccome – ma queste canzoni e questo disco restituiscono a Marr una dignità d’autore troppo spessa fatta passare in secondo piano.

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