C’è un popolo semi sconosciuto, che per diversi secoli è stato il più emarginato d’Europa, se non del mondo. Si tratta dei Cagots, abitanti dei territori baschi di Francia e di Spagna, che per secoli hanno vissuto in condizioni di grave emarginazione. Più che una popolazione, si potrebbe definire una sotto casta di reietti, paragonabile ai paria indiani: accusati di volta in volta di essere untori di lebbra e di peste, discendenti di Caino o del diavolo stesso, insomma: la “razza maledetta” per antonomasia.
Vivevano in ghetti ai margini dei villaggi e, come ebrei e lebbrosi, dovevano indossare dei “segni d’infamia”: abiti particolari o marchi sui vestiti per rendere subito evidente il loro status sociale, che invitava a evitarli e legittimava la violenza contro di loro.
L’origine è controversa e non sono ben chiare nemmeno le ragioni di tanto odio popolare nei loro confronti; fatto sta che, intorno al 1200, essere Cagot era un po’ come essere ebreo, lebbroso ed eretico contemporaneamente. E nei secoli successivi le cose vanno sì migliorando, ma non troppo.
Oggi gli individui di pura razza Cagot – se di razza ha senso parlare – sono molto pochi, ma l’Occidente non ha rinunciato ad avere il suo capro espiatorio. Se i Cagots sono il popolo più odiato della storia, gli zingari si guadagnano infatti uno stimabile secondo posto.
Oggi al termine “zingari”, considerato spregiativo, si preferisce “popolazione romanì”: un’espressione che in Italia ha avuto poco successo. Preferiamo parlare genericamente di Rom, anche quando si tratta di Sinti, Caminanti, Kalé, Romanichals ecc. Oppure di “nomadi”, termine che dà lo spunto per splendidi neologismi come “nomadare” ma fornisce anche un’informazione forviante: che si tratti, cioè, di popoli tuttora non stanziali, il che è sbagliato in circa il 90% dei casi. Perché con la progressiva scomparsa del mondo contadino, nel quale il periodico arrivo delle carovane zingare era un altro degli eventi che scandivano i ritmi stagionali, il nomadismo è diventato sempre meno sostenibile.
“Ci fermavamo e chiedevamo un po’ di acqua per i cavalli. Barattavamo oggetti e generi alimentari. Ci fermavamo poco, per non pesare mai troppo su chi ci permetteva di accamparci sul proprio terreno”, racconta Mirko, rom harvati giunto in Italia durante la seconda guerra mondiale: “Non soffrivamo mai di depressione, allora. Se avevi malumore partivi e cambiavi aria”.
A questo punto vi siete forse già imbattuti in qualche informazione che non conoscevate, ed è normalissimo: è un popolo di quasi nessuno sa niente, nemmeno le persone più colte. Però quasi tutti hanno un’opinione in proposito. Il più delle volte negativa.
Come popolo girovago, i gitani hanno infatti una grande tradizione musicale, per quale vale la pena scomodare nomi grossi come i Gipsy Kings ma soprattutto Django Reinhardt, straordinario chitarrista jazz – nonostante due dita paralizzate – che quando veniva a Roma per i suoi concerti, rifiutava gli alberghi per dormire in uno dei campi nomadi della città.
Ed è un’antipatia abbastanza trasversale: se la destra non li può vedere perché poveri e dalla fedina penale spesso non impeccabile, anche una buona parte della sinistra li mal tollera. Non capisce come mai “non vogliano integrarsi”, perché non si comportino come i rifugiati operosi ed educati, creando così delle spiacevoli incongruenze nel discorso edificante della buona accoglienza.
A differenza dei Cagots, però, le ragioni di queste antipatie si possono intuire. Il loro rapporto con i gagè (in non rom in lingua romanì) è stato problematico fin dal primo arrivo in Europa, in epoca medievale. Come tanti stranieri, sono stati subito additati come presenze malefiche, con l’aggravante del nomadismo (che allora poteva essere interpretato come punizione divina) e della pratica di mestieri come la lavorazione dei metalli, che all’epoca veniva ricondotta alla magia.
Come popolo senza stato, condividono il proprio ambiente con i gagè, vivono all’interno – o meglio, ai margini – del loro tessuto sociale in una dinamica che non è di confine, perché non esistono territori rom, e non è nemmeno un rapporto colonizzato/colonizzatore. Vivono all’interno di una società senza appartenervi realmente, cercando di resistere all’assimilazione e allo stesso tempo tentando di sfruttare le maglie che questa società offre. Da una parte cercano di mescolarsi – sono moltissimi quelli che lavorano mentendo sulla provenienza – e dall’altra arroccandosi orgogliosamente nella difesa della propria identità.
La continua marginalizzazione, va da sé, produce devianza e disuguaglianze nella sfera pubblica che è difficile colmare. L’opinione pubblica, nel frattempo, si rinchiude sempre di più nella sua ostilità e come per i Cagots, anche per gli zingari la situazione, con il passare dei secoli, non è migliorata granché. Il culmine, ovviamente, si raggiunge con l’Olocausto della seconda guerra mondiale, in cui sono morti ben 500mila romanì. Furono gli unici, oltre a gli ebrei, che i nazisti deciso di sterminare su base etnica.
L’incontro tra questi due popoli, in un certo senso speculari, è rappresentato in modo esilarante nella scena di Train de Vie (il film più riuscito del filone “tragicommedie sull’Olocausto”) in cui il finto treno di deportati ebrei incontra il finto treno di deportati zingari e si festeggia insieme suonando intorno al fuoco.
Come popolo girovago, i gitani hanno infatti una grande tradizione musicale, per quale vale la pena scomodare nomi grossi come i Gipsy Kings ma soprattutto Django Reinhardt, straordinario chitarrista jazz – nonostante due dita paralizzate – che quando veniva a Roma per i suoi concerti, rifiutava gli alberghi per dormire in uno dei campi nomadi della città.
Oltre al mestiere di circensi, allevatori di cavalli, artigiani di metalli (sì, la versione di oggi è la vendita del rame, a volte rubato) ed espositori di memorabilia e oggetti rari nelle fiere – tutti lavori che, ai tempi del nomadismo, hanno permesso loro di integrarsi nella vita dell’Europa contadina – i romanì vantano infatti diverse incursioni nel mondo dello spettacolo e dello sport – soprattutto nel calcio.
È sempre un po’ sterile e poco elegante fare il “censimento” dei personaggi famosi che appartengono a questa o a quell’altra minoranza. Ci limiteremo quindi a due nomi. Il primo, di fama universale, è Charlie Chaplin. Le sue origini gipsy sono state scoperte di recente e non sono ancora a prova di bomba ma restano molto probabili. Il secondo è Johann Wilhelm Trollmann, soprannominato Rukeli: un campione dei pesi medi che per primo utilizzò la tecnica del “balletto” (schivare saltellando) che renderà celebre Cassius Clay. La sua storia è incredibile e vi conviene recuperarla, magari ascoltando la bella puntata che gli ha dedicato Carlo Lucarelli nel programma Dee Giallo.
Non ci sono dati che provino una maggior incidenza di reati in Rom e Sinti rispetto a qualsiasi altro gruppo, etnico e non, in condizioni di indigenza simili. Il problema è il loro stile di vita altro. Il loro ostinarsi a mantenere abitudini e tradizioni proprie ci dice che non riconoscono il nostro stile di vita come il migliore, quello da adottare. E il campo, il loro modo di abitare, ne è l’esempio più lampante
Naturalmente gli esempi illustri non servono per costruire un’immagine idealizzata di queste comunità, anzi: l’immagine poetica di “figli del vento” dagli occhi misteriosi e vaticinanti è un altro stereotipo che, negando la dimensione del disagio sociale e della subalternità istituzionale, fa più danni che altro.
Si tratta di restituire complessità all’immagine stigmatizzata di una minoranza di circa 15 milioni di persone nel mondo che non hanno mai vantato pretese territoriale né armato un esercito. “C’è qualche elemento della tradizione comune per tutti, come la necessità di fare parte di una famiglia allargata. Viviamo molto nel presente e non abbiamo la mania e l’ossessione del possesso delle cose”, spiega l’attrice Dijana Pavlović a Vanity Fair: “Viviamo in tutti i Paesi, abbiamo tutte le religioni, e pur mantenendo la nostra, il romanì, parliamo tutte le lingue europee”.
Senza negare le difficoltà di convivenza, si tratta dunque di restituire profondità a una popolazione ridotta a uno stereotipo da cronaca locale di basso livello, che li ha resi una volta di più il capro espiatorio ideale, anche nel nostro paese (ricordate Maccio Capatonda?), tant’è che guai a difenderli! Non te lo puoi permettere nemmeno se sei una signora anziana, colta ed educata, senatrice, nonché una delle poche superstiti ai lager nazisti che sia ancora in vita.
E la ragione profonda di questa grande antipatia non sta nel fatto che rubano: non ci sono dati che provino una maggior incidenza di reati in Rom e Sinti rispetto a qualsiasi altro gruppo, etnico e non, in condizioni di indigenza simili. Il problema è il loro stile di vita altro. Il loro ostinarsi a mantenere abitudini e tradizioni proprie ci dice che non riconoscono il nostro stile di vita come il migliore, quello da adottare. E il campo, il loro modo di abitare, ne è l’esempio più lampante.
A differenza di altri luoghi che incarnano la marginalità, come i grandi slum, che sono spazi informali funzionali all’economia principale, o le banlieues parigine, consapevoli dello propria marginalità e in conflitto più o meno latente con il resto della società, e pertanto in dialogo con essa, i campi nomadi si limitano a essere altrimenti.
Se togliamo la produttività e i possibili interessi economici resta dunque solo l’imbarazzo di dover gestire un viver altro che nessuno capisce completamente. Al di là di quale soluzione abitativa sia più auspicabile per i diretti interessati – alcuni, di solito i più anziani, preferiscono vivere nei campi, molti altri preferirebbero un’abitazione più convenzionale, e nel giro di qualche generazione sicuramente prevarranno – resta il fatto che in questi insediamenti si realizza alla perfezione quella che Antonella Moscati, curatrice di Utopie Eterotopie (Cronopio 2006), definisce la “funzione fondamentalmente anarchica delle eterotopie”, che per Michel Foucault sono quegli spazi che sono connessi ad altri spazi, ma in qualche modo ne invertono le regole.
Oltre a ricordarci l’importanza della collettività – sono diversi i gagè che hanno iniziato a vivere con i rom attratti dalla dimensione sociale e di accoglienza –, spazi come i campi nomadi costituiscono luoghi di resistenza, non tanto per coloro che vi stanno dentro ma, forse, per alcuni di coloro che ne stanno fuori. Si tratta di luoghi che, per la loro stessa esistenza, contestano tutti gli altri spazi, incarnando una differenza assoluta. Sono luoghi di resistenza anche quando diventano spazi di reclusione. Perché insinuano un dubbio nei confronti del nostro “incosciente e autarchico benessere”.