Donald Trump no. I grandi media hanno deciso che è un idiota, per di più venduto ai russi, e se lo dicono loro… Allora sarà qualcun altro. In ogni caso, chiunque governi gli Usa lo fa alla grande. Certo, lo fa con una logica imperiale, da “America first!”: io sono io e voi non siete… granché. Ma all’americano medio, quello che a novembre sarà chiamato a rinnovare l’intera Camera dei Rappresentanti e un terzo del Senato, certe filosofie importano poco. Per lui vale sempre lo slogan con cui Bill Clinton ottenne nel 1992 il primo mandato presidenziale: “It’s the economy, stupid!”. Il Pil oggi cresce come mai negli ultimi vent’anni (più 4,1% nel secondo trimestre, 2,2% su base annua), la disoccupazione cala (4%, in alcune aree addirittura il 2), il reddito medio delle famiglie aumenta, Wall Street macina record e le esportazioni si allargano. Chiunque governi gli Usa, come si diceva, se la cava benone.
E la constatazione vale anche per la politica estera. Facciamo finta che sia Trump, anche solo perché è lui quello che si vede in giro. E diamo un’occhiata al liscia e bussa che sta facendo all’Europa. All’inizio ha azzerato la situazione, disdettando il Trattato Trans-Pacifico e il Nafta (l’accordo di libero scambio tra Usa, Canada e Messico) e mettendo in freezer il Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti che riguarda l’Europa. Una volta riportati tutti alla casella del via, ha cominciato a tirare legnate.
La prima è toccata ai vicini, Messico e Canada, che profittavano del Nafta più di quanto potessero fare gli Usa. Il punto, per Trump (o chi per lui) non erano i quattrini (il volume del commercio tra i tre Paesi è triplicato da quando, nel 1992, il trattato è entrato in vigore) ma i posti di lavoro e i salari. Nel 2014, il Peterson Institute for International Economics pubblicò uno studio secondo cui 4 milioni di operai americani avevano perso il posto a causa delle delocalizzazioni verso il Messico, dove il costo del lavoro è più basso. E secondo uno studio del professor John McLaren, economista dell’Università della Virginia, i salari dei lavoratori americani nelle aree toccate dalle delocalizzazioni erano calati anche del 20%. La triste sorte subita dal Nafta ha fatto gioire la base elettorale di Trump.
Poi è toccata all’Asia: abolito il Trattato Trans-Pacifico che Obama aveva costruito con tanta cura, guerra dei dazi con la Cina, una sistematina alla Corea del Nord (servita anche per ricordare a quella del Sud chi è che dà le carte) e via.
L’intento è sempre quello: portare o far tornare un bel po’ di soldi in America. Del Nafta abbiamo detto. Nel 2017, il disavanzo commerciale degli Usa con la Cina è volato a 566 miliardi di dollari su base annua. Con l’Europa va un pochino meglio, ma solo un pochino. Sono 150 i miliardi di dollari annui di passivo per gli Usa negli scambi con il Vecchio Continente, con una realtà che sfugge ai più, e cioè che l’Europa, fino alle misure decisa da Trump sulle importazioni di acciaio e alluminio, era assai più protezionista degli Usa, avendo un dazio medio del 5,3% contro il 3,5% applicato dagli americani
Quindi è arrivato il turno dell’Europa, sottoposta alla più tipica cura Trump: prima il bastone, poi ancora un po’ di bastone, infine la carota, che si pappano però gli Usa. Prima un po’ di fuoco di preparazione: entusiasmo per la Brexit, l’ex consigliere (ma forse più consigliere oggi di quanto lo fosse nei sei mesi in cui lavorò da capo-stratega alla Casa Bianca) mandato a seminare zizzania, apprezzamenti per la crescita di “populisti” e “sovranisti”, compresi quelli italiani, critiche alle politiche sull’immigrazione. Poi cannonate più mirate, per esempio la riforma fiscale che avvantaggia le imprese americane ai limiti del protezionismo o la minaccia di applicare le sanzioni anti-Iran anche alle aziende europee che continueranno a fare affari con gli ayatollah. E infine i colpi veri. Bordate contro la Germania di Angela Merkel, che non si assume gli oneri che le spettano nel finanziamento della Nato e accoglie troppi migranti. Freddezza con la Francia, dove Macron si autoproclama miglior amico di Trump ma intanto si becca (come la Merkel) i dazi su acciaio e alluminio. Prove di intesa con Vladimir Putin, come a dire che i grandi si parlano tra loro e l’Europa si può anche scavalcare.
L’intento è sempre quello: portare o far tornare un bel po’ di soldi in America. Del Nafta abbiamo detto. Nel 2017, il disavanzo commerciale degli Usa con la Cina è volato a 566 miliardi di dollari su base annua. Con l’Europa va un pochino meglio, ma solo un pochino. Sono 150 i miliardi di dollari annui di passivo per gli Usa negli scambi con il Vecchio Continente, con una realtà che sfugge ai più, e cioè che l’Europa, fino alle misure decisa da Trump sulle importazioni di acciaio e alluminio, era assai più protezionista degli Usa, avendo un dazio medio del 5,3% contro il 3,5% applicato dagli americani.
Il messaggio di Trump è semplice: cacciate la grana. Lui non vuole minare la civiltà occidentale o erodere la democrazia. Vuole riempirsi il portafoglio. Correggere l’enorme ingiustizia per cui in giro c’è gente che guadagna più di lui. Così, dopo aver menato a destra e a manca, dispensa saggi consigli: cara Angela, non fare quel brutto gasdotto con Putin, compra il gas liquido che produciamo noi americani. Dici che costa circa il 20% in più? E vabbè, che vuoi che sia. Guarda caso poi arriva l’accordo con la Ue e la stretta di mano con Juncker, sui dazi ci mettiamo d’accordo e intanto importiamo il gas americano. E l’Italia? Fatelo quel Tap, che vi arriva il gas dell’Azerbaigian (feudo Usa ricco di gas e petrolio) e la smettete di comprarne così tanto dalla Russia. In cambio, se state buoni, noi americani continueremo a farvi esportare mozzarella e, magari, vi daremo una mano con la Libia, da dove arrivano tutti quei migranti. Il che, tra l’altro, serve anche per dare una bottarella a quel giovanotto impulsivo di Macron, che tanto vorrebbe pasticciare con la sponda Sud del Mediterraneo.
Trump (o chi per lui, naturalmente) sta vincendo la battaglia. Lo dimostra la corsa affannosa verso Washington dei più vari leader europei. Tedeschi, francesi, polacchi, italiani, tutti ad accreditarsi presso il nuovo Imperatore. In attesa di settembre, quando le agenzie di rating americane prenderanno a distillare le loro pagelle. Nessuno vuole un cinque in condotta.