Di Monopoli? Un bluff che sfrutta (male) il marchio Adelphi. Leggete l’alchimista della letteratura Piero Meldini

Il bastone e la carota. Un libro stroncato e uno elogiato alla settimana. Uomini e cani è un libro senza storia, uno splatter di serie D reso appetibile dalla sua casa editrice. Molto meglio L'avvocata delle vertigini: un giallo apocrifo e mistico, scritto con una sapienza letale

Il bastone. Fatto salvo il nome dell’autore, così bello che pare espunto da un poema cavalleresco o da un cabaret-bisca degli anni Cinquanta, tutto il resto è contraffatto. Fin dal titolo, che è la contraffazione del titolo più noto di John Steinbeck (Uomini e topi), solo che qui i ratti, per così dire, sono evoluti in cani, in molossi, per non parlare del linguaggio, volutamente involuto, con volute retoriche tanto rètro da fungere da gas nervino per la pazienza del lettore. Insomma, bastano poche pagine di Uomini e cani per finire nel furibondo mondo dei sogni, ben più violento del mondo fittizio creato surrettiziamente da Omar Di Monopoli, il re della contraffazione. La ‘patacca’, per altro, si svela subito, dall’aggettivazione delle prime due pagine, che t’arriva in faccia come una granata di acne: il fumo è “sozzo e filaccioso”, “il vecchio eremita” ha “l’espressione di un’unghia incarnita”, il sentiero è “dirupato”, i calzoni “logori”, la maglia “sdrucita”, le guance sono “mascelle abbrunate di barba ispida”, la faccia è “abbruschiata dal sole”, il sorriso è “un micidiale ghigno”, i denti, ovviamente, non sono denti, trattasi di “dentatura marcia” e i cani, “ringhianti, parevano vetture di grossa cilindrata ferme al semaforo, deste a scattare” (similitudine decisamente imbarazzante). Falciati un po’ di aggettivi e segata una quantità di frasi scritte su porcellana, buone a sbalordire chi non legge altro oltre i gialli da spiaggia e le cronache sportive (tipo: “Il bosco era avvolto da biancore alabastrino della luna piena…”; “Tribù di postulanti variamente indaffarati sfilavano davanti ai numerosi sportelli aperti al pubblico elemosinando un po’ d’attenzione”), la storia, già smilza, si ridurrebbe a un racconto. Di fatto, il fatto non c’è, è tutta ‘atmosfera’ da southern gothic in supposta di pummarola, non accade nulla tranne un Pietro Lu Sorgi che uccide un tot di carabinieri, nell’immaginario paese di Languore, profondo Sud italico – perché inventarsi un luogo inesistente?, in questo caso la scelta narrativa non è necessaria, biologicamente efficace, come in William Faulkner (che costruisce, intorno a Yoknapatawpha, alberi genealogici, vicende bibliche, humus di vivi e di morti), ma del tutto campata in aria, perché ‘fa figo’, ‘fa scrittore’, vanità delle vanità. Il contrasto tra la satrapia atavica (raffigurata da Don Titta) e ‘progressismo’ civico (il Sindaco, che vuole sottrarre terra e privilegi a chi ne fa abuso), con florilegio di cani assassini (che fa pulp, fa guapo del quartierino letterario) e bella fanciulla ghermita dai cattivi (Milena, la quale, pigliata da Santo il “truce”, che se la scopa “abbrancandola”, ha l’audacia di prendere un “grosso sasso spigoloso” – aggettivazione da scuola elementare, qui il vocabolario s’è ammosciato in mano a Di Monopoli – e di “spaccarlo sul grugno di Santo mentre questi veniva”), fa lo stesso effetto di allora – il romanzo è uscito nel 2007 per Isbn – una noia verbosa, una irritazione verbale. I riferimenti letterari di Uomini e cani sono così chiari e inarrivabili – il Cormac McCarthy de Il buio fuori, il Faulkner di Santuario – che il libro, appunto, pare l’imitazione di una imitazione, una contraffazione, scritta per épater les crétins. L’esercizio critico – diabolico – è quello di leggere Uomini e cani alternandolo a Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino: qui un linguaggio rètro, puntellato di barocchismi, ha il nitore di ciò che è inevitabile, in Di Monopoli, invece, il linguaggio è stucchevole, manda in avaria lo stomaco, sotto la glassa retorica il nulla. Ciò che è affascinante, piuttosto, è il potere ipnotico del ‘marchio’. Per il semplice fatto di essere griffato Adelphi, Uomini e cani, altrimenti un modesto splatter di serie D, è un capolavoro del noir, e Di Monopoli un autore a cui “ne sono stati accostati alcuni altri di un certo peso: da Sam Peckinpah a Quentin Tarantino, da William Faulkner a Flannery O’Connor” (possibile che anche i redattori Adelphi, i serafini dell’editoria, abbiano smarrito il comune senso del pudore?). Devo dire che per chi come me fa il cecchino dei ‘fatti culturali’ la cosa ha del miracoloso, del cristologico: Adelphi ha il potere di trasmutare il fango narrativo in oro, la bigiotteria in grandine di diamanti. Non è la prima volta. Casi simili a Di Monopoli sono quelli di Salvatore Niffoi, modesto cantastorie che con maglioncino Adelphi è diventato onnipotente cantore sardo, e, più indietro, di Giuseppe Ferrandino, autore di un romanzo assai mediocre e pasticcione, Pericle il Nero, che diventò, misticamente, un cult, a qualche centimetro da Gadda. Tranquilli tutti: al male non c’è fine. La liturgica ‘ala’ di Uomini e cani tiene ad avvisarci che “di Omar Di Monopoli… altri titoli sono in preparazione”. In Adelphi, secondo me, ghignano. C’è qualcosa di demonico nel detenere il potere di assolvere le colpe estetiche, nel vendere, con parole estatiche, dicendolo oro, il vile.

Omar Di Monopoli, Uomini e cani, Adelphi 2018, pp.182, euro 16,00

La carota. Basso, di bulimica intelligenza, borgesiano (adora, su tutto, Altre inquisizioni), fuori dai giochi letterari ‘che contano’, polemico, spietato con se stesso e con il prossimo suo, Piero Meldini, classe 1941, per oltre un ventennio direttore della Biblioteca ‘Gambalunga’ di Rimini – che è stata aperta al pubblico 400 anni fa, è la più antica biblioteca civica d’Italia – ha il carisma truce di chi mi sta simpatico. L’ho intervistato un paio di volte – è uno dei pochi scrittori che vorrei incontrare costantemente. Lettore furibondo, critico totale, verbi intinti nel cinismo, Meldini è stata la ‘scoperta’ letteraria più alta e più vera di Adelphi. Era il 1994, collana Fabula, copertina superba (un particolare della Santa Lucia di Francesco del Cossa, con mano che regge uno stelo da cui fioriscono due occhi), esordio memorabile. “L’avvocata delle vertigini” sviluppò un domino di sospiri e di elogi nel club dei critici di allora. Il libro dell’esordiente cinquantenne vinse il Bagutta e fu tradotto in mezza Europa. Prima di quel romanzo, Meldini, scopritore di manoscritti strambi, speleologo in catacombe bibliografiche, aveva scritto diversi saggi, succulenti, come Reazionaria. Antologia della cultura di destra in Italia (1973) e Mussolini contro Freud. La psicoanalisi nella pubblicistica del fascismo (1976), entrambi editi da Guaraldi, e diversi studi – antropologia enogastronomica – sulla cucina romagnola. L’avvocata delle vertigini è un libro di diagonale bellezza, un giallo apocrifo e mistico, dove un professor Dominici, esperto in storie dei santi, scopre che la vicenda di una “beata Isabetta” nasconde profezie inquietanti. La scrittura segue una logica allucinata e ferma, che ricorda, a tratti, Friedrich Dürrenmatt: “No, non era Dominici a sfidare il vuoto: era il vuoto che sfidava lui. Che lo tentava. Che lo chiamava. Avesse almeno creduto. Gli sarebbe stato concesso, negli assalti, di affidarsi alla beata. Un incredulo poteva solo illudersi di colmare la mancanza di fede con un di più di laboriosità”; “Le ore scorrevano di traverso, col passo del granchio. Il vescovo sedeva alla scrivania, assillato da un tarlo, da un chiodo, che aveva la vacuità e l’ostinazione di un fischio”. Il libro ha un pregio raro: vuoi capire come si svolge la vicenda e nello stesso tempo sei beatificato da una scrittura vigorosa, da una sapienza letale. Insomma, Meldini è il grande alchimista della letteratura italiana. Il marchio Adelphi, per un tot, fece felici entrambi: L’antidoto della malinconia (1996), il secondo libro di Meldini, entra nella cinquina del Campiello. Con Lune (1999), libro di livida meraviglia, si conclude il rapporto con Adelphi: Meldini comincia a pubblicare per Mondadori. “Sai, La falce dell’ultimo quarto… con quello ho scritto qualcosa di simile, di più grande, forse, a Cent’anni di solitudine, ma nessuno lo ha capito”, mi disse, tempo fa, era un giorno caustico. Dal 2012 Meldini non pubblica più. Sembra essere troppo raffinato, austero, extravagante per il sistema letterario attuale. Lui, d’altronde, non si preoccupa, non si occupa della fama, la scaccia, con sorriso furbo, manco fosse una gigantesca arpia uscita di scatto da un bestiario medioevale, malconservato.

Piero Meldini, L’avvocata delle vertigini, Adelphi 1994

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