Il bastone. Tutto si riduce, in fondo, a una pisciata. La consapevolezza ultima di Aldo Busi è questa, in fondo, finalmente, in definitiva: non gli tira più, non tiene più a freno il piscio, che fa quel che gli pare, “alla mia età la vescica, come la capacità di sopportazione, ormai è quel che è”, per cui è tutto un viavai di “precipitose fughe in bagno” e senza clamori, da subito, dall’incipit sudaticcio, imbarazzante (“Una delle ultime consapevolezze di cui ho fatto bottino, per magro che sia, è che da ragazzo ero affascinato dagli uomini che non parlano…”), l’ultimo romanzo di Busi si riduce, appunto, a una schizzata di piscio fuori dal vaso, e schiantiamola qua. Da tempo, lotta fino all’asfissia con l’aitante Bruno Giurato, ‘fammi bastonare Busi, ti giuro che il suo libro è una pisciata pazzesca’, e lui, a ripetizione, mi ghiaccia la minzione, ‘meglio un Busi oggi che un Catozzella domani’, ovvio, gli replico, ‘meglio un giorno da Busi che cento da D’Avenia, ma non possiamo continuare a dare spazio agli scrivani della letteratura, ai pedagoghi del moralismo estetico, anestetico, una volta tanto bisogna parlare di Letteratura con la L a caratteri cubitali’. Dai e dai, glielo meno – figurativamente – finché quel Tommaso di Bruno non si compra l’ultimo romanzo di Busi, l’orinatoio di Busi, arriva a pagina 9, lo chiude, mi chiama, ‘procedi’, fa, eccoci qua. Sintetizzo. L’unica ragione per assolvere Le consapevolezze ultime è ipotizzare che ragionevolmente e consapevolmente Busi abbia voluto distruggere se stesso. Già. Come un Raffaello che decida, colto da impellenza biologica dadaista, di cacare sul muso de La muta, per dire – posto che, parere mio, per quanto eretico, a me i romanzi di Busi, neanche Seminario della gioventù, neppure Sodomie in corpo 11, mai che m’abbiam fatto venire un’erezione letteraria, semmai qualche manciata di ragadi anali di noia. Ecco. Il Busi settantenne, oggi, che sodomizza il Busi di ieri potrebbe avere un suo fascino in sé, sarebbe il soggetto per un racconto felice&feroce – a patto che a scriverlo non sia quella patta pacchiana di Busi. Il libro così com’è, però, fa davvero pisciare, è il solito Busi che dall’altare di una cena trimalcionesca di cialtroni ci racconta i fatti suoi, che in quanto suoi checcenefrega a noi (“io l’auto la uso il meno possibile”, e quindi?; poi quella monella stinta di Aldo ci tiene a farci la mammografia dei suoi rapporti con Vittorio Sgarbi: “sono anni che non me lo inculo, e la sua nave di Teseo non fa per me”, e allora?) e si lancia a capofitto in considerazioni sul contemporaneo da demenza senile e semantica, un capogiro di goliardia beona (primo esempio: “questa è la realtà, e ci sfugge come mai prima nella storia dell’umanità visto che per qualche miliardo di umani la realtà virtuale è la sola realtà fattuale”, che se tanto mi da tanto Vittorio Feltri, è fattuale, è più scrittore di Busi; secondo esempio: “l’editoria italiana è la carta ricalcata del palinsesto prevalente sia in Rai che nelle tivù commerciali: ricette di cucina”, concetto, mi pare, che va ricalcando ogni lettore sano di mente e di piscio da almeno trent’anni). Insomma: non basta scrivere frasi con una sfilza di coordinate e subordinate, un tango che va avanti per pagine, per ritenersi pari “al sub-dio” (anagramma di chi sai tu) di qualche lustro fa, qui c’è solo un subdolo mestatore del verbo, uno sbrodolone, il piagnisteo di certi vecchi che vado a trovare all’ospizio per dialogare con la morte incipiente è più estroso, céliniano, ultimativo. Inconsapevolmente, Le consapevolezze ultime relegano Busi all’oblio, era uno scrittore, ora è una nota sul margine sfrangiato dalle cimici della storia della letteratura.
Aldo Busi, Le consapevolezze ultime, Einaudi 2018, pp.132, euro 15,00
La carota. Fui introdotto nell’ano dell’opera di Busi da Massimiliano Parente, uno che sa quello che scrive. Ristampa del 2004 di Sodomie in corpo 11, edizione Oscar Mondadori, “A Davide, e vai subito a leggere pag. 142-161”. Dopodiché ho letto altro, ben altro, tanto altro di Busi. Ma, candidamente, quelle sono le pagine splendide di uno scrittore dall’ego tracimante, dalla fragilità abbacinante, da baciare. Un florilegio di frasi indimenticate: “Si nasce scrittori come si nasce accordatori di pianoforti: non appena lo si è diventati”; “Senso di essere dappertutto senza appartenere a niente”; “Innamorarsi perdutamente dell’amore quel tanto che basta per non ripetere più l’esperimento”; “Imparare a lasciar vivere chi non ha altro da fare”; “Salotti e parties letterari: non pensiate, scrittori all’alba, che fare parte di cricche, giurie, cerchioni letterari abbia mai resuscitato qualcuno dalla sua naturale inesistenza”. Venti pagine più utili di due anni alla Scuola Holden o di una telefonata a piripicchio per farti introdurre nella cristalleria editoriale di Elisabetta Sgarbi o tra le braccia di Federica Manzon o sotto la lingua di Carlo Carabba, per dirne alcuni a caso. Quanto al resto, beh. Un Aldo Busi dimentico di essere Busi lo imbucherei al Ministero della cultura, sai che spasso? Di Busi, francamente, trovo indimenticabile l’attività da ‘agitatore culturale’: ha diretto ‘I Classici classici’ per Frassinelli, tra le più belle collane editoriali di sempre, in questo mortorio librario, andate a ripescare il catalogo. E poi, è un traduttore fenomenale, Busi, perché conosce buchi e pertugi del linguaggio, sa che il verbo è carne, è carnale, ha un odore: ha tradotto Alice nel Paese delle Meraviglie e Christina Stead, meravigliosa scrittrice australiana, e Autoritratto in uno specchio convesso di John Ashbery, un libro importante, bellissimo, di uno dei più grandi poeti americani di sempre. Bisognerebbe ripubblicarlo. D’altronde, Busi scripsit, “Non esiste grandezza in uno scrittore vivente”. Ma i posteri, sonoramente, di solito, se ne sbattono della grandezza di chi non c’è più, se muori tu scrivo meglio io, c’è più spazio.