Governo del cambiamento? Tra nomine e poltrone il potere è sempre più maschio

Il “governo del cambiamento” non cambia affatto. Le ministre solo solo cinque e, a parte Trenta alla Difesa, tutte in ruoli marginali. E anche nelle nomine dei vertici di commissioni, gabinetti e partecipate prevalgono gli uomini. Anche più di prima

Il colore non è più lo stesso, ma il genere, sì. E anche con il “governo del cambiamento” giallo-verde, il potere resta maschio. Anzi, in alcuni casi più maschio di prima. Il “manuale Cencelli” usato da Lega e Cinque Stelle per spartirsi, a fatica, le nomine dei vertici di ministeri e partecipate è tutt’altro che equo sui sessi. E tra poltrone già occupate e quelle ambite, alla fine gira che ti rigira circolano quasi solo nomi maschili.

Nel nuovo consiglio d’amministrazione di Cassa depositi e prestiti, appena ratificato a fatica, le donne sono tre su 12 componenti: Fabrizia Lapecorella, Fabiana Massa Felsani e la riconfermata Alessandra Ruzzu. Nella tornata precedente erano quattro. Tutte consigliere. I nomi dei vertici erano e sono tutti al maschile. Lapecorella è stata anche confermata al Tesoro di Giovanni Tria nell’incarico di direttore generale del dipartimento finanze: una delle poche donne nelle posizioni apicali del ministero di via Venti Settembre.

Tra i due dicasteri guidati dai vicepremier Di Maio e Salvini, a vincere per presenza femminile è quello leghista. Al superministero dello Sviluppo economico e del lavoro, Di Maio ha rinnovato il suo gabinetto. Ma, a parte la chiacchieratissima segretaria Assia Montanino e la portavoce Cristina Belotti, i nuovi consiglieri, responsabili e capi di gabinetto e di ufficio sono tutti uomini. Fa meglio Matteo Salvini dal Viminale, dove c’è un vicecapo di gabinetto vicario donna (Emanuela Garroni) e sei capoufficio su 11 sono nomi femminili.

Nelle Commissioni parlamentari, i presidenti donna si contano ancora sulla punta delle dita, ma sono di più della precedente legislatura (quando erano solo quattro): alla Camera Carla Ruocco (Finanze), Barbara Saltamartini (Attività produttive), Giulia Sarti (Giustizia) e Marta Grande (Difesa); al Senato Nunzia Catalfo (Lavoro), Donatella Tesei (Difesa), Vilma Morese (Ambiente).

Tra sottosegretari e viceministri giallo-verdi, invece, le donne sono solo cinque su 45. E in questo caso faceva meglio il governo Gentiloni, che ne contava 11 su 41. Alla presidenza delle aule parlamentari, questa volta il nome femminile si trova al Senato (per la prima volta) e non alla Camera: il Cencelli è rispettato.

Anche con il “governo del cambiamento” giallo-verde, il potere resta maschio. Anzi, in alcuni casi più maschio di prima. Il “manuale Cencelli” usato da Lega e Cinque Stelle per spartirsi, a fatica, le nomine dei vertici di ministeri e partecipate è tutt’altro che equo sui sessi

Al Copasir è andato un uomo, Lorenzo Guerini. Alla Vigilanza Rai, pure: Alberto Barachini. L’unica donna che si è seduta su questa poltrona, d’altronde, è stata Rossa Russo Iervolino negli anni Ottanta. E i componenti laici del Consiglio superiore della magistratura appena eletti dal Parlamento sono tutti uomini, portando 60 costituzionaliste di tutta Italia a scrivere una lettera aperta a Capo dello Stato, presidente del Consiglio e presidenti di Camera e Senato. Che però finora è rimasta senza risposta.

Questo per quanto riguarda le poltrone già assegnate. Ma non c’è da sperare in una riscossa femminile nemmeno per le nomine per le quali Lega e Cinque Stelle stanno ancora litigando. Pare solo che i due partiti siano intenzionati a confermare una donna alla presidenza della Rai come erede di Monica Maggioni, ma non trovano un accordo sul nome della leghista Giovanna Bianchi Clerici. Mentre per le direzioni dei tg, a parte la giornalista Federica Sciarelli, circolano solo nomi maschili: da Peter Gomez a Mario Giordano, da Paolo Del Debbio a Gennaro Sangiuliano.

Stessa cosa per i vertici di Fs. Fuori il renziano Renato Mazzoncini, la Lega vorrebbe Giuseppe Bonomi. Al Gse, che gestisce gli incentivi per le rinnovabili, i grillini vorrebbero l’ad di Eon Luca Dal Fabbro. Mentre per l’Autorità per l’energia i papabili sono il viceministro leghista Dario Galli e il sottosegretario grillino Davide Crippa. Nomi di donne non pervenuti.

Senza dimenticare ovviamente la composizione governativa. Dopo il “pinkwashing” del governo renziano più rosa di sempre (8 su 16), nel governo Conte i ministri donna sono solo cinque su 19. Di queste, l’unico ministero chiave è quello della Difesa, affidato a Elisabetta Trenta del Movimento 5 Stelle. Le altre tutte in ruoli minori. E senza neanche un ministero delle Pari opportunità, che del resto si è visto l’ultima volta ai tempi del governo Letta (in quello guidato da Renzi era una delega affidata a Maria Elena Boschi).

D’altronde, nel suo discorso di insediamento, il premier Giuseppe Conte ha dedicato alle donne solo 37 secondi. E nel contratto pentaleghista la parola “donna” compare solo quando si parla di politiche per la natalità e la famiglia. Affidate per giunta a un ministro anti-abortista come Lorenzo Fontana.

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