La banalità del fanatismo: il guru giapponese è stato condannato a morte, ma la fede degli adepti è più forte di prima

Lo ha raccontato anche Murakami: per i discepoli il maestro ha sbagliato, ma la convinzione negli ideali della setta non è scalfita. “Merito” di un sistema manipolatorio, ma non solo: chi cerca il significato della vita in un culto religioso spesso non è né anormale né eccentrico

JIJI PRESS / AFP

Asahara Shōkō, il leader e fondatore della setta Aum Shinrikyō – la “Verità Suprema” -, è stato il primo, ieri, ad essere impiccato nel carcere di Tokyo, nell’elegante Giappone (dove esiste ancora la pena di morte), per l’attentato al sarin nella metropolitana di Tokyo, in cui persero la vita 13 persone e oltre 6200 furono feriti e intossicati. Il guru – che, in realtà, si chiamava Chizuo Matsumoto e aveva 63 anni – era nel braccio della morte da oltre dieci anni, da quando aveva ammesso, nel 2004, di aver pianificato l’attacco. Dopo di lui, sono stati giustiziati altri sei adepti della setta. Dei cinque attentatori della metropolitana, già due erano stati impiccati, Toyoda Toru e Hirose Kenichi. Ce l’aveva raccontato Haruki Murakami (Kyoto, 1949), il famoso scrittore giapponese, nel potente affresco “Underground” (Traduzione di Antonietta Pastore, Einaudi), dedicato alle vittime, e ai carnefici, degli attentati al sarin.

“Asahara Shōkō al momento è ancora sotto processo, rischia la pena di morte. – annotava allora Murakami nell’epilogo, oggi da riscrivere – C’è chi pensa che il governo rallenti la procedura per timore di farne un martire tra i suoi seguaci, che sono ancora molti”. Adesso Asahara Shōkō è stato giustiziato, è dunque diventato un martire? Ventitre anni dopo la tragedia. Sulla sua capacità di fascinazione non ci possono essere dubbi. Ci vuole infatti una certa dose di fede per essere convinti, nella metro affollata, anzi in tre punti della linea, a perforare, con la punta affilata di un ombrello, delle sacche di gas tossico. Un veleno inventato negli anni trenta dallo scienziato Gerhard Scharder, su incarico di Hitler. Un nome soave, dal sapore vagamente ebraico (ma coniato con le iniziali dei suoi inventori), per un gas venti volte più letale dell’inquietante cianuro, una piccola goccia in grado di uccidere. Era una bellissima giornata di primavera a Tokyo, quel lunedì 20 marzo 1995 quando, intorno alle 8, nell’ora di punta, si spense la luce per molti giapponesi. Era l’equinozio di primavera e diversi passeggeri riferirono di avere bruciori agli occhi, la vista era oscurata e vedevano il cielo come coperto da una coltre (come forse vedeva il cielo lo stesso Asahara, affetto da un deficit visivo sin dalla nascita). Era l’effetto del gas sull’enzima colinesterasi.

“Asahara Shōkō al momento è ancora sotto processo, rischia la pena di morte. – annotava allora Murakami nell’epilogo, oggi da riscrivere – C’è chi pensa che il governo rallenti la procedura per timore di farne un martire tra i suoi seguaci, che sono ancora molti”. Adesso Asahara Shōkō è stato giustiziato, è dunque diventato un martire? Ventitre anni dopo la tragedia. Sulla sua capacità di fascinazione non ci possono essere dubbi

Il racconto di Murakami filma, senza retorica, la fine del mondo, passeggeri accasciati a terra, altri che tentano di fuggire, di mettersi in salvo, o, con la schiuma alla bocca, semplicemente di respirare. Ma la salvezza non è data a tutti. Alcuni non sono sopravvissuti. Tra di loro Wada Eiji, un uomo buono che amava lo sci, il padre della piccola Asuka, nata poco dopo l’attentato. Tantissime le vite che si incrociarono, per caso o per destino, in quella mattina infernale: un celebre fantino irlandese, molti esperti di informatica, la giovane Akashi Shizuko che sognava Disneyland, ancora ricoverata in ospedale in stato poco più che vegetativo, un signore che andava, come al solito, a comprare il latte. Un sottofondo di dolore che si è insinuato nella quotidianità di migliaia di vittime. Mentre la paura resiste nei pensieri e nei gesti quotidiani. Tra le testimonianze raccolte da Murakami anche quella del professor Yanagisawa Nobuo, classe 1935, che la maledetta mattina del 20 marzo, ha spedito decine di fax a tutti gli ospedali con le istruzioni per i medici, per intervenire tempestivamente. Sapeva cosa fare perché, nel precedente attentato al sarin a Matsumoto, sempre a firma del culto Aum, era morta una sua studentessa molto preparata di Medicina.

Perché i seguaci di Aum si sono macchiati di diversi crimini, come l’assassinio dell’avvocato Tsutsumi Sakamoto, della moglie e del piccolo bambino e volevano eliminare, quella mattina, tre giudici scomodi. Oltre alle vittime, Murakami ha incontrato gli adepti (e gli ex) della setta religiosa, ed è questa la parte più scomoda e più interessante del libro, perché la fede incrollabile nella superiorità degli ideali del culto Aum sembra non aver avuto cedimenti. Sì, il leader ha sbagliato, dicono, il Maestro Asahara è colpevole. Ma il culto è ancora vivo: nel gennaio 2002, Aum ha pubblicato una dichiarazione in cui deponeva Asahara Shōkō dalla carica di capo, cambiava il proprio nome in “Aleph”, prometteva di introdurre riforme e obbedire alla legge. Dopo l’attentato, è stato eletto come nuovo leader, guarda caso, il figlio del “Maestro”. Ma quello che si legge, tra le parole dei devoti, non è solo è il desiderio di salvezza e di purificazione dei seguaci, ma anche un ben oliato sistema di manipolazione e di segregazione. Masutani Hajime, infatti, afferma che il culto era vicino agli esperimenti su cavie umane e che lui stesso è stato sottoposto alla macchina della verità e segregato in una cella di isolamento, per giorni e giorni, costretto a ingurgitare un liquido speciale contenuto in un thermos. La droga era certo parte della liturgia religiosa. Come la costruzione di enormi cisterne per gli esperimenti chimici, un laboratorio nascosto dall’immagine del dio Shiva, in polistirolo. “Il muro che si erge tra la nostra vita quotidiana e un culto religioso è molto più sottile di quanto immaginiamo”, ci ricorda Murakami.

Oltre alle vittime, Murakami ha incontrato gli adepti (e gli ex) della setta religiosa, ed è questa la parte più scomoda e più interessante del libro, perché la fede incrollabile nella superiorità degli ideali del culto Aum sembra non aver avuto cedimenti. Sì, il leader ha sbagliato, dicono, il Maestro Asahara è colpevole. Ma il culto è ancora vivo

Tra gli attentatori al sarin, lungo la linea Chiyoda della metropolitana, Hayashi Ikuo, un eccellente chirurgo, devoto ai pazienti, ma ormai sfiduciato nel sistema sanitario giapponese. L’attrazione verso un mondo spirituale con forza operativa e immacolato, dove l’ineccepibile dottore avrebbe potuto dispensare cure mediche, era irresistibile. Ma il luogo promesso, “una pallida caricatura della realtà”, si è trasformato in una maledizione. La pena capitale del leader Asahara Shōkō aggiunge un altro capitolo alla dolorosa pagina underground dell’attentato al sarin di Tokyo, ma non mette la parola fine. Molti pensano che l’attentato sia “acqua passata”, ma “chi cerca un significato alla propria vita in un culto religioso, di solito non è un anormale. Non è un reietto sociale, non è un eccentrico” registra lucidamente Murakami. Gente, insomma, un po’ come noi, che viene indotta dal fanatismo: “Si tratta di persone come ce ne sono tante, che vivono intorno a noi. Da un certo punto di vista sono perfino superiori alla norma. Forse si arrovellano troppo sulle cose. Forse si portano dentro qualche ferita. Non riescono a farsi capire bene da chi vive intorno a loro e si tormentano”. Basti pensare che uno dei libri più celebri del culto Aum si intitola “Al di là della Vita e della Morte”. A ventitre anni dall’attentato, qualcuno penserà che per le vittime sia stata fatta giustizia, ma la morte del leader allunga le ombre e infittisce il mistero sulla verità dell’attentato, la sua verità “suprema”.