È una legge non scritta ma ormai verificata. Si fanno più figli laddove le donne lavorano di più. Lo si vede nel Nord Europa e nel nostro piccolo in Italia, dove il crollo della natalità ha colpito in modo molto più duro il Mezzogiorno rispetto al Nord, ovvero laddove l’occupazione femminile è a livello da record negativo continentale.
Per questo non sono buone per la tenuta demografica italiana le notizie che provengono dalle statistiche sul mondo del lavoro, una volta che le si guarda nel dettaglio.
Dal 2014 a oggi, ovvero in un periodo in cui vi è stata una crescita forse insperata del numero di occupati in Italia, in cui abbiamo superato il record di lavoratori di ogni tempo, all’interno di questo progresso qualcuno è rimasto indietro. Si tratta delle donne con figli.
Nel complesso il tasso d’occupazione delle donne tra i 25 e i 49 anni (quindi quando si può essere madri con figli minori) è cresciuta del 1,9% per coloro che non hanno figli, mentre non si è mosso per chi ne ha uno, ovvero la maggioranza relativa delle madri. Vi è stato un progresso del 1,4%, quindi comunque inferiore, per chi ne ha due e vi è un dato positivo, un +3,8% per chi ne ha 3 o più, ma sono pochissimi casi oramai.
Il gap tra chi ha figli e chi non ne ha è innegabile, e diventa ancora più rilevante tra le laureate.
Queste sono state molto favorite dalla ripresa, ma solo se senza prole. L’occupazione delle laureate senza figli è cresciuta del 4,9%, quella di chi ha a carico un minore solo del 0,6%, se ne ha due dell’1%.
Insomma, se a livello generale era già evidente il gap tra la proporzione di donne occupate con figli e senza, con le ultime in percentuale maggiore, qui vi è un ulteriore allargamento.
E se è vero che è il lavoro che aiuta le nascite, ed è l’istruzione che aiuta il lavoro, non è una buona notizia che proprio quel segmento di lavoratrici che hanno studiato di più, che potrebbero ottenere redditi tali da consentire loro di farsi una famiglia, fatichi più di tutti ad accrescere l’occupazione.
È vero, si potrebbe pensare che la crescita dei posti di lavoro per le donne senza figli sia in fondo positiva, perchè consente loro di averli in futuro, ma spesso quel lavoro in realtà lo hanno ottenute proprio perchè figli non ne hanno, e sarà difficile mantenerlo in caso di un parto.
Inoltre il problema demografico italiano nasce non solo dalla mancanza di primi figli, ma anche e soprattutto dal numero minore di secondi, terzi, quarti e così via (nel 2016 erano il 53% dei nati in Italia e il 58% in Francia).
È chiaro che se non migliorano le prospettive lavorative di chi fa il primo è difficile immaginare un allargamento delle famiglie.
Tra l’altro l’Istat ci dice che il rapporto tra il tasso d’occupazione di una donna con figlio e una senza (che è in media di 75,5) è peggiore proprio al Sud, dove, il lavoro scarseggia, ovvero proprio dove l’economia va peggio per le donne con prole è più difficile ottenere un posto rispetto a una senza.
È poi un rapporto che negli anni è peggiorato, a dimostrazione dell’allargamento di questo gap.
E tra le donne con figli peggio di tutti va proprio a quelle che hanno bambini più piccoli.
Il dato più preoccupante riguarda le donne che hanno un solo figlio di 6 anni o meno. Ebbene, per queste, siano laureate o meno, dal 2014 vi è stato addirittura un calo del tasso di occupazione, del 2,2% in generale, del 1,6% per le più istruite. Tra le laureate però il peggioramento coinvolge anche coloro che hanno due o tre figli (di cui almeno uno di 6 anni o meno).
Va un po’ meglio a chi li ha più grandi, ma si viaggia sempre su tassi di occupazione inferiori a quelli di chi figli non ne ha.
Un andamento simile, con donne con figli piccoli sfavoriti rispetto alle altre lo si è visto anche in un Paese per molti versi simile al nostro, la Spagna, ma non si è arrivati al segno meno. Il tasso d’occupazione femminile in caso di figli di 6 anni o meno è cresciuto del 2,1%, contro un +4,7% per quelle senza, mentre in Italia nel primo caso abbiamo un -2,2%, contro un +1,9% nel secondo.
Quello che è successo è che in questi anni di fragile ripresa le imprese hanno preferito assumere giovani, donne, magari con contratti a termine, che non “pesassero” troppo, per esempio con una maternità, sui già sottili margini di attività semplici che spesso non offrono grandi prospettive di crescita nè per l’azienda nè per il dipendente.
Vi è poi l’ambito dell’industria e dei servizi avanzati in cui in particolare i giovani laureati hanno trovato molte opportunità a maggior valore aggiunto, eppure anche in questo caso sono state preferite le donne senza figli, ed è questo in particolare che deve preoccupare.
L’assenza di una grande azienda del livello di quella francese o tedesca, la bassa produttività, la ripresa flebile, tutto vero, sono fattori che hanno influito, ma vi è forse anche un aspetto culturale da non sottovalutare in questa tendenza nel temere la madre che vuole lavorare.
E allora non è un caso che quando l’ISTAT chiede se si è ottimisti sul proprio futuro nei prossimi 5 anni il maggiore gap tra le risposte di uomini e donne, con le ultime più pessimiste è tra i 35 e i 44 anni, età in cui oggi si ritrovano gran parte delle madri con figli minori, un -4,5 che è andato aumentando negli anni. Segno di un disagio in crescita che contribuisce a lasciare le culle vuote e la nostra economia al palo.