Lasciate le acque fangose del Rio de la Plata, il Beagle fece rotta verso Capo Deseado, sulla costa occidentale della Patagonia. Altre volte ci era capitato di trovarci circondati da insetti. Non ci stupimmo dunque più di tanto quando una sera, a dieci miglia dalla Baia di San Blas, fummo attorniati da migliaia di farfalle. Facendo correre lo sguardo tutt’attorno ci accorgemmo che erano una distesa immensa. Anche scrutando con il cannocchiale non se ne vedeva la fine. I marinai gridavano: “Nevicano farfalle!”. Come si fossero spinte così lontano dalla costa restava un mistero.
Erano di moltissime specie, ma le più numerose appartenevano a quella nota come Colias edusa. In mezzo a quel turbinio vi erano pure parecchi imenotteri. E alcuni coleotteri della varietà detta Calosoma si posarono a bordo dopo un volo sbilenco. La cosa era tanto più sorprendente perché quel genere di coleotteri è in grado di compiere solo brevi tragitti.
Andò avanti così tutto il giorno seguente e durante il pranzo capitò che qualche farfalla finisse nei nostri piatti. Verso sera si alzò una forte brezza da nord che ci liberò della loro presenza, sbatacchiandole qua e là e facendone strage. Non era la prima volta che assistevo a simili fenomeni. Mentre ci trovavamo alla foce del Plata il sartiame fu ricoperto di ragnatele. La giornata era calda, il cielo terso, e per tutta la mattina nell’aria avevo visto fioccare grumi di ragnatele e sfrecciare singoli fili con appesi a un capo, come a una liana, ragnetti rosso scuro non più lunghi di un paio di millimetri: e questo nonostante la nave fosse a non meno di cinquanta miglia dalla costa. Non appena arrivavano a bordo, i ragnetti si davano da fare tessendo la loro tela come meglio potevano. Ma la cosa più sorprendente era vederli correre sulla superficie del mare senza bagnarsi, fermandosi di tanto in tanto a trangugiare goccioline d’acqua con avidità. All’ora di cena la nave si era riempita di questi ragnetti e delle loro inesauribili ragnatele. A volte, mentre erano appesi al filo, il vento li sollevava trascinandoli di nuovo verso il mare. Il giorno dopo prendemmo il largo e i ragni, così come erano venuti, scomparvero.
Doppiato Capo Deseado, il 9 dicembre gettammo l’ancora nella baia di San Julian, dove Magellano aveva fronteggiato l’ammutinamento dei capitani spagnoli e dalla quale era ripartito in cerca dello stretto che porta il suo nome. Fatta provvista di acqua dolce e abbattuto qualche guanaco, la cui carne è dura ma saporita, riprendemmo la navigazione, seguendo la linea della costa. E dopo un paio di settimane fummo in vista della Terra del Fuoco. Ce ne accorgemmo subito perché da più punti dell’entroterra si alzavano colonne di fumo. Lasciatoci alle spalle Capo San Diego ci infilammo nello stretto di Le Maire. Chi conosce la Terra del Fuoco sa che è in gran parte montuosa e semisommersa dall’acqua salata, con rara vegetazione e possenti ghiacciai. Verso sera gettammo l’ancora nella Baia del Buon Successo. Calammo la scialuppa e vi salimmo a bordo in dieci iniziando a remare. Presto scorgemmo un gruppo di fuegini appollaiati su un dirupo che precipitava nel mare. Erano una dozzina. A un tratto cominciarono a sbracciarsi e a lanciare al nostro indirizzo grida spaventose. Quando la scialuppa fu a tiro di voce mossero verso di noi sbraitando a più non posso per indicarci il punto di approdo migliore. Non appena fummo sbarcati si avvicinarono cauti, senza mai smettere di parlare tra loro e gesticolare. Con noi erano anche i due patagoni che avevamo a bordo. Il primo, di nome York Minster, era un bassetto taciturno e collerico. Si era unito a noi durante la sosta a San Julian. Quello che si faceva chiamare Jemmy Button invece era stato acquistato sei anni prima dal capitano FitzRoy per un bottone di madreperla. FitzRoy lo aveva condotto con sé in Inghilterra per educarlo alla religione e alle nostre usanze. Tra gli scopi del nostro viaggio vi era quello di ricondurlo nella sua terra di origine. Jemmy risultava simpatico a tutti ma anche lui era quanto mai iracondo. Nonostante fosse basso e grassoccio, era incredibilmente vanitoso. Indossava guanti bianchi, si preoccupava che i capelli fossero sempre ben rasati e si disperava quando le sue scarpe si impolveravano. Passava molto tempo a guardarsi allo specchio. La sua vista era acutissima, molto più della nostra. E quando era arrabbiato con l’ufficiale di guardia si divertiva a provocarlo: “Io vedo nave che viene verso di noi, ma non dico dove”. Sebbene parlasse e capisse l’inglese, era difficile ottenere da lui risposte sensate.
Dopo aver scambiato qualche parola con loro, Jemmy ci spiegò che appartenevano a una tribù affine alla sua. Il più anziano era il capo, mentre gli altri erano tutti giovani di corporatura robusta, sopra il metro e ottanta. Erano avvolti in mantelli di pelliccia di guanaco, buttati sulle spalle, e nient’altro. Sembravano molto fieri della loro statura e facevano di tutto perché la si notasse, venendoci accanto e sollevandosi sulle punte dei piedi. Il vecchio aveva il capo cinto da una sottile fascia adorna di penne bianche. Il viso era solcato da due strisce colorate: una rossa e l’altra bianca. I giovani invece avevano il volto pitturato di nero. Offrimmo loro dei doni, tra cui delle sciarpe vermiglie che avvolsero intorno al collo con diffidenza. Ma in breve la tensione si allentò. Il capo ci manifestò la sua amicizia abbandonandosi a risatine ebeti, colpendoci ripetutamente sul petto col pugno e pretendendo che facessimo lo stesso con lui.
Il loro linguaggio pareva inarticolato. Il capitano Cook nei suoi diari l’ha paragonato al rumore che si fa quando ci si raschia la gola. Va riconosciuto però che sono degli abilissimi mimi. Imitano ogni gesto e ogni frase con precisione assoluta. Nessun europeo saprebbe fare altrettanto. Quando seppero che Jemmy era originario di quelle terre e sentirono pronunciare il nome della sua tribù, i Tekenika, e quello della famiglia da cui proveniva, promisero di recarsi al suo villaggio per avvisare i parenti. Notai subito qualcosa di strano nel contegno di Jemmy. Sembrava scontento. “Mia tribù molto meglio” cominciò a ripetere, non appena se ne furono andati. Era chiaro che si vergognava di loro.
Due giorni dopo si presentò al nostro campo (allestito alla bell’e meglio) una delegazione di Tekenika. Avevano i corpi dipinti di ocra, attraversati da strisce nere e rosse. Da loro Jemmy seppe che suo padre era morto; ma siccome aveva già assistito alla sua morte in sogno non parve toccato dalla notizia. Continuava a ripetere: “Io non ci posso fare niente”. I suoi “concittadini” promisero che il giorno dopo sarebbero tornati con sua madre e così fu. La madre e i fratelli di Jemmy giunsero in canoa fino all’insenatura di Wulaia, dove avevamo stabilito il campo. Jemmy riconobbe la voce di uno dei fratelli da una fenomenale distanza. L’incontro fu sconcertante. Lui e la madre si fissarono per qualche istante poi lei tornò a sorvegliare la canoa. Eppure ci avevano detto che era quasi morta di dolore per la perdita del figlio. I suoi fratelli invece pretendevano che gli regalassimo tutto ciò su cui posavano gli occhi. E se rifiutavamo tentavano di rubarlo. Oppure indicavano le loro donne e i figli facendo capire: “Se non vuoi dare a me, almeno dà a loro”.
Ci trattenemmo in quella baia una decina di giorni. Vista l’apparente tranquillità, io e il capitano compimmo lunghe escursioni tra i monti, durante una della quali egli abbatté un condor dall’apertura alare di tre metri; poi di punto in bianco sparirono tutte le donne e i bambini. La cosa ci allarmò. Temevamo di averli offesi in qualche modo. Nemmeno Jemmy sapeva spiegarci il motivo di quella condotta. Qualcuno ipotizzò che si fossero spaventati vedendoci tirare coi moschetti; altri ritenevano che dipendesse da un episodio accaduto la sera prima. Un vecchio indigeno si era offeso perché una sentinella gli aveva intimato di allontanarsi dalla scialuppa. Il vecchio aveva sputato in faccia alla sentinella facendo capire a gesti che avrebbe voluto farlo a pezzi e mangiarlo. Si tratta di popolazioni che praticano il cannibalismo. Quando sono tormentati dalla fame divorano le donne più anziane, parte delle quali serve a sfamare anche i loro cani. Uno di loro giustificò quella usanza spiegando che i cani catturano le lontre, le vecchie no. Raccontò che per ucciderle le costringevano a respirare il fumo del focolare finché non soffocavano. Diceva tutto questo ridendo e imitando il modo in cui le poverette si dibattevano e gridavano terrorizzate, non mancando di indicarmi le parti più appetitose del loro corpo. Concluse il racconto con un altro dettaglio sconcertante: ai primi segni di carestia alcune vecchie fuggivano sui monti; ma venivano inseguite e acciuffate.
Viaggiava con noi un missionario di nome Matthews, uomo stolto ed egoista. Un giorno scomparve. Ritrovammo i suoi sandali sul retro della capanna di un fuegino insieme a un mucchio d’ossa umane, e subito ci fu chiaro quale sorte gli era toccata. Doveva averli irritati in qualche modo. Del resto, era da prevedere, vista la supponenza che mostrava nei loro confronti e le maniere brusche cui ricorreva per convertirli alla nostra fede. Sul volto del capitano FitzRoy calò un’ombra. “Sarà bene fare ritorno alla nave e levare le ancore prima che le cose si mettano male” disse quella sera stessa. La mattina dopo centinaia di fuegini si ammassarono tutt’intorno al campo, abbandonandosi al saccheggio e cercando di sfinirci con un baccano incessante, battendo tra loro bastoni e pietre con fare minaccioso. A un tratto alcuni di loro vennero verso di noi facendo segno che avrebbero voluto strapparci i peli e la pelle dal corpo per mangiarci. Tra essi vi erano alcuni parenti di Jemmy. Riuscimmo a respingerli con qualche colpo di moschetto. Quel pomeriggio stesso levammo il campo e ritornammo a bordo del Beagle, disponendo doppi turni di guardia. Non abbiamo mai saputo perché avessero mutato atteggiamento nei nostri confronti. Alle prime luci dell’alba levammo le ancore e prendemmo il largo. A parte la sorte toccata al reverendo, l’unico nostro cruccio era aver lasciato tra quella gente York e Jemmy, tanto più che quest’ultimo era stato derubato dai suoi stessi fratelli, e la cosa lo aveva turbato. “Voi uomini cattivi” non smetteva di gridare. “Via! Via!”. Probabilmente sarebbe stato lieto di tornare sul Beagle, ma per orgoglio, io credo, preferì tacere. Dubito comunque che il capitano avrebbe acconsentito a riprenderlo con sé, tradendo la promessa fatta anni prima. Non ci è dato sapere cosa sia capitato ai due, ma di certo avranno saputo cavarsela. E del resto, quando cinque mesi dopo ci trovammo imprigionati in una baia tra i ghiacci, senza più viveri, anche a noi non rimase che ricorrere a quell’estremo rimedio, estraendo a sorte i nomi di coloro cui sarebbe toccato sacrificarsi per sfamare gli altri.
*Gianluca Barbera è autore del romanzo “Magellano” (Castelvecchi, pp. 237, euro 17,50), tra i libri dell’estate. Il romanzo racconta la prima circumnavigazione del globo da parte del navigatore portoghese, tra ammutinamenti, tempeste, gelo polare, scontri con feroci tribù e tradimenti. Un viaggio non solo fisico ma anche dell’anima.