«Vedi quelli che sembrano fori causati da proiettili sulle facciate di quel palazzo…Sono esattamente fori causati da proiettili». Conclude la frase Greta, volontaria dei Corpi Civili di Pace che si trova a Bihać, Bosnia, da oltre un anno. Partiti per attuare un progetto di dialogo e riconciliazione – quei proiettili e quella violenza, quelle cicatrici non ancora sanate – in pochi mesi sia i Corpi Civili di Pace che la popolazione locale hanno dovuto cominciare a lavorare a un altro progetto e cioè l’accoglienza di centinaia, poi migliaia di migranti che si sono concentrati al confine tra Bosnia e Croazia. È la purtroppo famosa rotta balcanica, attraverso la quale, dal 2015, sono arrivate in Unione europea centinaia di migliaia di persone, e che l’Unione europea pensava di aver bloccato stringendo, nel marzo 2016, un patto con la Turchia: voi bloccate i migranti, noi vi diamo un bel po’ di soldi. La rotta balcanica, però, non si è mai chiusa, ma ha battuto nuove strade e nuovi sentieri che ora portano qui, a Velika Kladuša e a Bihać. Velika Kladuša, feudo del controverso Fikret Abdić, condannato per crimini di guerra e ora sindaco della città. Bihać, dichiarata “zona sicura” da una risoluzione dell’Onu, ma comunque stretta in un assedio che durò dal giugno del 1992 all’agosto del 1995, causando oltre quattromila morti e dispersi. In Bosnia e Erzegovina, secondo fonti governative, si contano ancora poco meno di centomila sfollati.
«Cosa vorresti fare una volta arrivato in Italia?», gli chiedo. «Cosa vorrei fare o cosa potrei fare?», mi risponde Samir, facendomi fare un bagno di realismo. «Cosa vorresti fare». «L’ingegnere. O il medico». Ha tredici anni e mezzo, Samir. È partito dall’Afghanistan più di tre anni fa insieme a suo padre e, lungo la rotta, ha imparato cinque lingue. «Mi dispiace non avere più la possibilità di esercitarmi con il turco». Samir mi conduce tra le tende e nello scheletro dell’edificio che, a Bihać, ospita al momento tra le settecento e le mille persone. Doveva essere una casa dello studente, la guerra lo ha condannato a essere incompiuto. Samir chiama a raccolta donne e bambini per una distribuzione di beni. Sono molti di più, sia le donne che i bambini, rispetto a quelli che ho incontrato l’anno scorso e due anni fa in Serbia. Alcuni di loro li ho sicuramente già incrociati. «Abbiamo già provato otto volte a superare il confine croato – prosegue Samir – e per otto volte siamo stati respinti: cinque volte in Serbia, tre volte in Bosnia». L’obiettivo ora è arrivare a Trieste. «Mi hanno colpita con un bastone», racconta una donna: le testimonianze coincidono con quelle provenienti dalla Serbia e raccontano di violenze gratuite da parte della polizia croata. «Ci sono dei pantaloni sportivi?», chiede un’altra donna, iraniana, che nel pomeriggio incrocio tra i passanti, sui marciapiedi della città, impegnata a fare footing. La mattina successiva, uscendo dal tendone allestito da Medici senza frontiere, confesserà a una volontaria della Croce rossa di non farcela più, di sentirsi male, di non trovare più un senso a nulla.
Dall’inizio dell’anno più di 7.600 rifugiati e migranti sono arrivati in Bosnia. Nel 2017 ne furono registrati poco più di 200. La maggior parte sono arrivati superando il confine con la Serbia, a seguito di innumerevoli tentativi falliti di vincere «the game» – così come lo chiamano – e poter entrare in Unione europea
Dall’inizio dell’anno più di 7.600 rifugiati e migranti sono arrivati in Bosnia. Nel 2017 ne furono registrati poco più di 200. La maggior parte sono arrivati superando il confine con la Serbia, a seguito di innumerevoli tentativi falliti di vincere «the game» – così come lo chiamano – e poter entrare in Unione europea.
Una minoranza è passata da Albania e Montenegro. Provengono soprattutto dal Pakistan, dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Iran e dall’Iraq. Ahmad è afghano, ma è nato in Iran, come suo figlio Amir, di sei anni: «i miei genitori sono scappati dall’Afghanistan durante gli anni ’80: né io né lui – dice indicando Amir – abbiamo documenti. Non li abbiamo mai avuti». La compagna di Ahmad si trova in Serbia, insieme a un altro piccolo: «siamo rimasti in Serbia per oltre un anno, ma arrivati a questo punto non ha senso restare lì, in quel campo governativo, e così abbiamo deciso di separarci». Amir ha voluto seguire il papà. Gioca con una bandana regalatagli da una volontaria, dice di essere un ninja. Guardiamo sullo smartphone del papà la sintesi di Inghilterra – Belgio e poi mi fa vedere un’altra applicazione: «con questa imparo il tedesco, per quando saremo in Germania». Nel cortile dello studentato dei bambini giocano con un pallone e hanno in mano una bandiera croata che maltrattano. Sui container dei servizi che delimitano il campo da gioco sono affisse delle mappe che individuano, in rosso, zone che potrebbero essere minate. Si stimano oltre mille chilometri quadrati, il 2,2% della superficie della Bosnia e Erzegovina e si stimano circa 600 morti dal 1996 ad oggi.
All’interno i bagni non esistono. Nel pavimento ci sono buchi e dei giovani riposano sul ciglio, altri cucinano piatti a base di uova accendendo fuochi all’interno delle stanze più ampie. Alcuni dichiarano di essere libici. C’è una piccola comunità che appare fuori posto, a giudicare dai tratti somatici. Sono cinque giovani e una donna e sono eritrei. «Come mai vi trovate qui?». «Perché scappiamo dalla dittatura, my friend». «Sì, ma come mai avete scelto la rotta balcanica e non la Libia?». «La Libia? Are you crazy? La Libia è l’inferno», mi risponde uno di loro.
Lo scorso giugno l’Unione europea ha destinato alla Bosnia 1,5 milioni di euro per l’accoglienza di rifugiati e migranti. Dragan Mektic, ministro della Sicurezza bosniaco, ha da subito messo in chiaro che la Bosnia non ha «né l’intenzione né la capacità di diventare» un paese a cui l’Unione esternalizzi la gestione delle proprie frontiere, così come fatto con Turchia e Libia. Lo stesso sindaco di Bihać, Šuhreta Fazilić, ha denunciato il disinteresse del governo centrale, colpevole di aver rifiutato qualsiasi tipo di collaborazione strutturale con la municipalità, compromettendo programmazione e organizzazione dell’accoglienza. A ottobre la Bosnia e Erzegovina andrà a elezioni per il rinnovo di una delle più complicate strutture istituzionali che possano essere concepite; saranno eletti tre presidenti che si alterneranno ogni otto mesi alla presidenza, così da garantire un equilibrio su base etnica. Milorad Dodik, presidente della Repubblica serba di Bosnia e Erzegovina (una delle tre strutture territoriali in cui si divide lo stato), ha dichiarato – secondo l’Economist – che i politici bosniaci musulmani avrebbero un piano segreto per importare migranti musulmani e modificare la composizione demografica bosniaca, così da poter prendere il controllo dell’intero paese. A metà maggio si è sfiorato l’incidente diplomatico quando, al confine tra due cantoni, la polizia ha fermato per cinque ore nel cantone a prevalenza croata di Herzegovina-Neretva dei bus sui quali viaggiavano duecentosettanta migranti che stavano per essere trasferiti da un campo improvvisato in un parco di Sarajevo a un centro per rifugiati a Salakovac, vicino a Mostar. Il capo della polizia di Mostar è stato arrestato.
C’è una piccola comunità che appare fuori posto, a giudicare dai tratti somatici. Sono cinque giovani e una donna e sono eritrei. «Come mai vi trovate qui?». «Perché scappiamo dalla dittatura, my friend». «Sì, ma come mai avete scelto la rotta balcanica e non la Libia?». «La Libia? Are you crazy? La Libia è l’inferno»
Il clima si è ulteriormente surriscaldato con l’arrivo del presidente turco Recep Erdogan che ha chiamato a raccolta a Sarajevo i propri connazionali in vista delle elezioni dello scorso 24 giugno. «Salvaguardate la vostra fede e la vostra lingua. Se le perdete, sarete persi», ha dichiarato. A fargli eco è stato il presidente di turno, il musulmano Bakir Izetbegovic: «è stato Dio a mandare Erdogan al suo popolo. E voi turchi d’Europa avete il dovere di aiutarlo».Lo stallo istituzionale e elettorale ha fatto sì che i presidi presso il dormitorio siano organizzati esclusivamente da organizzazioni non governative (tra cui le italiane IPSIA e One bridge to Idomeni) e dalla società civile, con il coordinamento della Croce rossa cittadina delle operazioni sulle necessità di base.
«Non credo che l’essere diventata una comunità che accoglie rifugiati sia così sorprendente, per i bosniaci: hanno familiarità con quel che significa essere rifugiati, non essere al sicuro nella propria casa o nel proprio paese». Veneta Rizvic ora risiede a St. Louis, negli Stati Uniti, dove fa la cronista per un giornale digitale. «Sono arrivata negli Stati Uniti il 2 settembre del 1998, grazie alla sponsorizzazione di mio zio che si era trasferito qui prima di noi». Veneta è fuggita con la sua famiglia proprio da Velika Kladuša, dopo aver passato la sua infanzia in un campo per rifugiati a Karlovac, in Croazia, appena oltre il confine. «Mi ricordo che mangiavamo pane con la marmellata, quando c’era, altrimenti solo pane raffermo. Ricordo che non potevamo uscire a giocare spesso perché le aree circostanti erano piene di mine. La prima volta che siamo stati costretti a lasciare la nostra casa eravamo solo io e mia madre: ero spaventatissima. Dovevamo, a piedi, trovare il percorso per spostarci da Velika Kladuša alla Croazia. La Bosnia – conclude Veneta – ha un sistema governativo estremamente complicato, tanto che regolamentare l’accoglienza dei rifugiati potrebbe non essere affatto semplice. La Bosnia ha affrontato una disoccupazione sconcertante e altri problemi economici sin dalla guerra: non sono sicura di quale futuro possano avere questi rifugiati in un paese che sta già lottando così tanto».
Il giorno dopo Samir non c’è più. La mattina presto, insieme al padre, ha provato nuovamente a vincere «the game» raggiungendo l’Unione europea. Al buio, nei boschi, alla ricerca del proprio cammino.