È il gesto universale di tutti i calciatori che sbagliano un rigore (o si vedono il tiro parato in modo miracoloso): prendersi la testa tra le mani (le famose “mani sui capelli”). È un movimento così diffuso, immediato e comune che ormai, a parte gli americani del New York Times e, qualche anno prima, anche gli inglesi del Guardian, nessuno lo nota più. È considerato normale. Il calciatore tira, sbaglia, si tocca la testa. Sì, ma perché?
Lo diciamo subito: non si sa. Entrambi i giornali, uno nel 2003 e l’altro nel 2018, sono concordi nel dire che sia una cosa psicologica – lo fanno tutti i giocatori, da qualsiasi parte del mondo – e non culturale. Ma cosa significhi con precisione quel gesto è ancora oggetto di dibattito.
Secondo alcuni psicologi interpellati dal Nyt, sarebbe il modo più plateale e immediato per “comunicare dispiacere e chiedere scusa a tutti i compagni di squadra”. Esprime delusione, mostra consapevolezza di aver commesso un danno e, al tempo stesso, costituisce una preghiera rivolta agli altri componenti del gruppo: “Non cacciatemi, non vogliatemi male”.
Secondo altri, sarebbe una espressione di vergogna. “Si mette in scena la costrizione del corpo. Viene ristretto, diventa più piccolo e schiacciato”. Sono i segni, dice una eminente studiosa, di chi prova vergogna – del resto, a sbagliare un rigore, come si fa a non vergognarsi?
Vergogna, ma anche dolore. Lo sosteneva un’autorità come Desmond Morris, che nel 1981 scrisse un libro (“La tribù del calcio”) proprio sull’antropologia del pallone. Mettere le mani nei capelli, spiegava lo studioso, va catalogato come forma di “auto-contatto. Lo si fa più o meno ovunque. Avviene quando l’individuo sente il bisogno di un abbraccio rassicurante ma non ha nessuno vicino che glielo possa dare nell’immediato”. È un fenomeno universale e lo fanno anche i primati.
Tutto vero, tutto giusto. Certo. Ma, come accennato poco sopra, lo stesso gesto scatta anche quando il giocatore sbaglia una lampante occasione da gol, magari per merito del portiere che fa un mezzo miracolo. Quale sarebbe in questo caso il danno di cui il giocatore è consapevole? Non ha nemmeno sbagliato lui: di cosa dovrebbe chiedere scusa? E ancora: è così doloroso mancare un gol (succede quasi sempre)? Davvero si avverte perfino il bisogno di una consolazione fisica immediata, quasi un regresso all’infanzia di pochi secondi?
Non si può sapere: in questa, come in tante altre questioni della vita, ci si muove nel mistero. LinkPop è aperto a ogni spiegazione, anche a quella, profana e provinciale (“Ma ‘ndov teng ‘a capa!”) che lo interpreta come semplice segno di stupore.