Gli stranieri, ormai è assodato, nel nostro paese fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare, ovvero quelli di manovalanza e a bassa specializzazione. Le badanti sono tutte, o la maggior parte, dell’est Europa, gli uomini rumeni lavorano nei campi del sud Italia, i cinesi fanno gli operai. Ma perché? Le ucraine sono forse più brave delle cinesi a fare le badanti? O i rumeni sono più veloci degli indiani quando si tratta di raccogliere pomodori?
Partiamo da due premesse. La prima: è vero che esistono mercati del lavoro separati per uomini e donne (il settore della cura, appunto, è tutto in mano alle donne). La seconda: è vero che ci sono influenze culturali, e il paese di origine incide. Se in alcuni paesi le donne lavorano come gli uomini (come nell’Europa dell’est), infatti, nei paesi arabi questa emancipazione esiste in misura molto minore. L’ultimo rapporto annuale del Ministero del lavoro sugli stranieri nel mercato del lavoro in Italia lo spiega bene: i tassi di inattività per le donne originarie del Pakistan, dell’Egitto e del Bangladesh superano l’80%, a fronte di una media nazionale del 44,1% e di un valore medio delle extracomunitarie del 43,9%.
Di fatto, però, sono solo una manciata le professioni in cui si concentra il lavoro straniero. Al punto che, secondo quanto riportato da Emanuele Galossi, ricercatore della Fondazione Di Vittorio, l’Istituto nazionale della Cgil per la ricerca storica, economica, sociale e della formazione sindacale, «nelle prime dieci professioni più diffuse tra gli extracomunitari si concentra il 70% del lavoro straniero».
I settori prevalenti li sappiamo: cura, lavoro domestico e pulizie (prevalentemente riservati alle donne), edilizia, agricoltura, logistica e facchinaggio (tipicamente maschili) e ristorazione (cucine e turismo in senso lato). In particolare, secondo il rapporto annuale, il settore agricolo occupa soprattutto tunisini (52,8%), ghanesi (44,6%) e marocchini (36,8%); i filippini (92,7%), peruviani (92,1%), srilankesi (90,7%), ecuadoriani (87,4%) e ucraini (81,7%) lavorano prevalentemente nel settore “Altre attività” nei Servizi, mentre nelle Costruzioni è rilevante la presenza di egiziani (29,2%) e albanesi (16,0%). Infine, l’Industria in senso stretto assorbe un numero considerevole di lavoratori cinesi (42,2%).
Partiamo da due premesse. La prima: è vero che esistono mercati del lavoro separati per uomini e donne (il settore della cura, appunto, è tutto in mano alle donne). La seconda: è vero che ci sono influenze culturali, e il paese di origine incide. Se in alcuni paesi le donne lavorano come gli uomini (come nell’Europa dell’est), infatti, nei paesi arabi questa emancipazione esiste in misura molto minore
Ma torniamo al punto: perché queste dinamiche? Se sicuramente è vero che esiste una “ghettizzazione” del lavoro per comunità, la verità è che, semplicemente, l’accesso al lavoro degli stranieri è quasi tutto informale e avviene per conoscenze e segnalazioni dirette: in altre parole, se sono ucraina e la mia rete è quella delle badanti, è probabile che anche le mie amiche ucraine finiscano a fare le badanti a loro volta, quando arrivano in Italia. I canali di accesso al lavoro, insomma, sono quelli non istituzionali. E se questo da un lato è positivo, perché il lavoro si trova subito, d’altra parte si finisce a lavorare sempre negli stessi settori. Questa è quella che gli esperti chiamano “segregazione orizzontale”. Non si tratta quindi di razzismo – anche se in attività che comportano il contatto con il pubblico, come la ristorazione, si potrebbero riscontrare dinamiche di quel tipo. Le discriminazioni, semmai, vengono operate sul fronte retributivo: «se gli stranieri guadagnano un quarto in meno degli italiani, le donne straniere sono ancora più penalizzate arrivando a guadagnare, per la stessa mansione, cinque o seicento euro in meno rispetto ad un maschio italiano» spiega ancora Galossi.
Dall’altro lato, però, un problema è rappresentato anche dalla cosiddetta segregazione verticale: banalmente, non si cresce professionalmente. Se da rumeno inizi a lavorare come carpentiere, difficilmente arriverai ad essere capo cantiere, per non dire imprenditore edilizio (sempre secondo il rapporto annuale del Ministero, appena lo 0,4% degli stranieri occupati è dirigente e lo 0,7% quadro a fronte dell’1,9% e del 5,8% degli italiani). La mobilità sociale è praticamente azzerata. E quel che è peggio è che queste condizioni, il più delle volte, si trasmettono anche alle generazioni successive: anche in famiglie straniere che risiedono e vivono da molti anni in Italia, i cui figli sono magari nati e cresciuti qui, «c’è sempre un pezzo che studia e va avanti, emancipandosi, ma anche altri, moltissimi, che non riescono a chiudere il ciclo di studi, ritrovandosi ingabbiati come i propri genitori in determinati mestieri, nonostante abbiano aspettative diverse» aggiunge l’esperto.
Quali sono le conseguenze di tutto ciò? Intanto, va detto che da diversi anni i flussi di ingresso sono bloccati, come spiega Claudio Piccinini dell’Inca Cgil: «dal 2011 gli unici due strumenti per entrare in Italia sono il lavoro stagionale – che dura solo qualche mese, e poi si deve rientrare nel proprio paese – o il ricongiungimento familiare»
Quali sono le conseguenze di tutto ciò? Intanto, va detto che da diversi anni i flussi di ingresso sono bloccati, come spiega Claudio Piccinini dell’Inca Cgil: «dal 2011 gli unici due strumenti per entrare in Italia sono il lavoro stagionale – che dura solo qualche mese, e poi si deve rientrare nel proprio paese – o il ricongiungimento familiare». Tant’è, stando ai dati del rapporto ministeriale, che i permessi di soggiorno per motivi familiari sono il 45,1% del totale mentre quelli per lavoro solo il 5,7%. Proprio sul tema del ricongiungimento la Cgil si sta impegnando dal 2017 in un progetto europeo, chiamato Progetto Form@ (Formazione orientamento ricongiungimento familiare) che prevede una formazione pre-partenza linguistica e civica-culturale dei familiari di coloro che si rivolgono agli uffici dell’Inca per chiedere di riunirsi alle proprie famiglie.
Dato che la stragrande maggioranza degli stranieri attualmente in Italia, pari a circa 5 milioni di persone, vive nel paese da più di dieci anni, le richieste di ricongiungimenti in questo senso puntano, almeno sulla carta, all’integrazione. Si cerca di stare insieme e di lavorare, insomma, ma «il nuovo percorso migratorio potrebbe essere dietro l’angolo», precisa ancora Piccinini: «tutto dipende dalle condizioni e dalle difficoltà dal punto di vista lavorativo».
Se si è migrati una volta, è più facile che si sia disposti a farlo di nuovo. Non solo dal sud al nord del Paese, ma anche verso l’Europa. Sta tutta lì la differenza tra i fattori “push” e “pull”, tanto citati quando si parla di migrazione: «Noi siamo in una fase per cui gli immigrati arrivano per push factor, ma l’Italia non è più un paese attrattivo. La maggioranza vorrebbe attraversare il paese, ma non fermarsi», puntualizza Galossi: «Il problema per noi è demografico, perché se non abbiamo nuove risorse e giovani non potremo pagare le pensioni di domani. La percentuale di persone straniere residenti in Italia è più o meno la stessa degli altri paesi europei, ma se l’Italia vuole avere la stessa capacità produttiva di Germania, Francia e Inghilterra, deve diventare un paese attrattivo». E se non dovesse diventarlo? «Se per via di politiche miopi e di quello che succede nel mercato del lavoro gli stranieri dovessero iniziare ad andare da altre parti, lasceranno l’Italia povera. È un fatto, come lo è che le migrazioni continueranno. Il problema non è “se vengono in Italia”, ma se non ci vengono!».