C’era questa intesa non scritta, potremmo chiamarla il Lodo Voltagabbana, che garantiva Forza Italia e Fratelli d’Italia dalla forza attrattiva della locomotiva Salvini, un treno sul quale – dopo le elezioni di marzo, la costituzione del governo, le successive Regionali – avrebbero voluto salire in tanti. C’era, e adesso non c’è più. Da ieri la Lega ha aperto i cancelli, e lo ha fatto senza infingimenti, nel modo più plateale e rumoroso possibile. A Roma. In Campidoglio. Con una conferenza stampa propagandata da giorni per annunciare il passaggio alla Lega del consigliere di Fratelli d’Italia Maurizio Politi (un altro, Francesco Figliomeni, è ancora in trattativa) che consentirà di costituire per la prima volta un Gruppo del Carroccio nella Capitale. Insieme a lui timbrano il cartellino salviniano altri 9 eletti nei Municipi, l’ex consigliere regionale Fabrizio Santori e Federico Iadicicco, leader dell’ala ultracattolica. In alcune storiche roccheforti come l’area dei Parioli, Fdi azzera la sua rappresentanza.
L’archiviazione del Lodo Voltagabbana probabilmente non riguarda solo il partito di Giorgia Meloni o il Comune di Roma. L’addio a FI di Alessandra Mussolini fa immaginare che anche sul fronte berlusconiano il vecchio accordo possa saltare a breve, e che in previsione delle Europee la Lega possa avviare un reclutamento aggressivo dei nomi e dei bacini preferenziali che, soprattutto al Sud, non è finora riuscita a conquistare per altra via. Lo stesso scontro sulla presidenza Rai, con lo sgarbo di avvisare Berlusconi a cose fatte per esibire l’autonomia leghista persino nel sancta sanctorum delle scelte televisive, autorizza l’idea che la tregua sia finita.
Dietro l’opportunismo dei singoli, si conferma un latente complesso di inferiorità, una sorta di sudditanza psicologica che vedemmo agire persino quando Gianni Alemanno era sindaco di Roma e Renata Polverini guidava la Regione Lazio, ed entrambi – a dispetto dei rapporti di forza, all’epoca tutti in loro vantaggio – ritennero di dover celebrare pubblicamente la fine delle ostilità con Umberto Bossi e le sue esternazioni anti-romane offrendogli pajata e polenta davanti a Montecitorio
E tuttavia la presa di Roma ha un carattere simbolico speciale, che merita di essere sottolineato, perché racconta meglio di tutti il sentimento di resa del centrodestra alla stella nascente di Capitan Salvini. A Roma la Lega vive senz’altro un exploit, è riuscita a quotarsi intorno al 10 per cento alle politiche, ha fatto bene nelle recenti elezioni in due Municipi, ma resta comunque incomprensibile il motivo per cui la destra anziché barricarsi nella sua primogenitura, difendere i duecentosessantamila voti che la città ha dato a Giorgia Meloni nel 2016, insomma “tenere il fortino”, abbia preferito consegnarsi, uomo dopo uomo, all’esercito del Nord senza nemmeno aspettare che cominciasse l’assedio. Dietro l’opportunismo dei singoli, si conferma un latente complesso di inferiorità, una sorta di sudditanza psicologica che vedemmo agire persino quando Gianni Alemanno era sindaco di Roma e Renata Polverini guidava la Regione Lazio, ed entrambi – a dispetto dei rapporti di forza, all’epoca tutti in loro vantaggio – ritennero di dover celebrare pubblicamente la fine delle ostilità con Umberto Bossi e le sue esternazioni anti-romane offrendogli pajata e polenta davanti a Montecitorio.
Sono passati otto anni, un’era geologica per la politica di oggi. Sulla carta, la destra romana è ancora molti punti sopra i suoi competitori. La sua leader, Giorgia Meloni, è romana ed è l’erede di una tradizione politica di portata ultra-decennale che ha il suo epicentro proprio a Roma, dove tutto si decise: dall’exploit missino del ’93 a ogni successiva tappa della scalata elettorale e governativa del mondo di An e post-An. E tuttavia la Lega riesce a tagliare la classe dirigente di Fratelli d’Italia come burro, e a prendersi per annessione ciò che gli elettori non gli hanno concesso col voto. L’archiviazione del Lodo Voltagabbana non è che il compimento della storia, e adesso che è successo a Roma, dove in teoria la resistenza avrebbe dovuto essere massima, e le intese di ferro, e le condizioni tutte a svantaggio degli ultimi arrivati, la conclusione può essere una sola. La destra e il centrodestra in generale non credono più di avere una possibilità. Dietro i leader che incoraggiano gli eletti e ostentano certezze, ci sono truppe convinte che la battaglia sia già persa e non valga più la pena di combatterla.