Dimidiato agli esordi come una sorta di ragioniere senza fantasia politica Giovanni Tria, ministro dell’Economia, si sta invece rivelando l’antagonista interno più coriaceo all’idea di governo di guerra che Salvini e Di Maio vorrebbero realizzare.
La legge di bilancio che i capi di Lega e Cinquestelle hanno in mente prevede l’apertura con l’Europa d’un confronto duro su conti e parametri, Tria ha un’altra visione. Salvini e Di Maio smentiscono tensioni col titolare dell’Economia, dicono che sono invenzioni giornalistiche, che Tria seguirà la linea.
E tuttavia a Salvini che promette una manovra di bilancio “diversa rispetto a quella degli ultimi anni”, di “cambiare alcuni numeri scelti a tavolino in Europa”, e garantisce “la riforma delle pensioni per aprire il mercato ai giovani, che va fatta a prescindere dai numeri di Bruxelles”, il ministro risponde che il programma del governo si applica mantenendosi “in quei limiti di bilancio necessari per conservare lafiducia dei mercati ed evitare l’instabilità”. Non sembra esattamente un viatico a riforma fiscale e reddito di cittadinanza entro l’autunno.
Anche perché Flat tax e reddito di cittadinanza farebbero alzare oltre il 3 per cento il rapporto deficit-pil mentre il ministero di via XX settembre vorrebbe rimanere entro l’1,5- 1,8 per cento
Una lettura – quella del cordone protettivo intorno a Tria – che a microfoni spenti viene confermata sia da esponenti leghisti che pentastellati, convinti che l’inquilino di via XX settembre sia, in fondo, il garante politico del Colle, preoccupato da piani B e cigni neri. Un eterogenesi dei fini, in fondo, per Paolo Savona che Tria lo aveva suggerito al ministero a lui inibito
Una posizione che Tria è intenzionato a difendere rispetto alle pressioni dei vertici di Lega e Cinquestelle. In questo supportato come si dice da una buona stampa. Nel suo editoriale d’inizio settimana sul Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli ricordava che Cdp – il forziere di Stato che gestisce 250 miliardi del risparmio postale – non è una banca pubblica a disposizione del governo di turno e lamentava la mancata nomina al suo vertice di Dario Scannapieco, attuale vice presidente della Bei, figura molto caldeggiata da Tria. Un pezzo in linea col sentiment di via XX settembre e sintomatico del credito di cui gode il ministro in ambienti moderati di sistema. Che comprendono quei vasti territori afferenti alla terra di mezzo delle direzioni generali dei ministeri, degli uffici tecnici, che rispondono a logiche di apparato e di nomenclatura conservativa. I quali confidano nel titolare dell’economia e nella sua funzione di trattenitore della possibile escalation che potrebbe subire il confronto con l’Europa per l’attivismo di Salvini e Di Maio.
Una lettura – quella del cordone protettivo intorno a Tria – che a microfoni spenti viene confermata sia da esponenti leghisti che pentastellati, convinti che l’inquilino di via XX settembre sia, in fondo, il garante politico del Colle, preoccupato da piani B e cigni neri. Un eterogenesi dei fini, in fondo, per Paolo Savona che Tria lo aveva suggerito al ministero a lui inibito.
L’altra opposizione fondata sui numeri – a torto o ragione – al governo ha nel presidente dell’Inps Tito Boeri la sua punta di lancia. Audito giorni fa in Commissione alla Camera Boeri ha confermato che la riformina del Jobs act – il decreto dignità di Di Maio – metterebbe a rischio ottomila posti di lavoro all’anno. Proiezioni le sue discutibili per alcuni – Tria compreso – e che tuttavia hanno aggregato intorno al suo discorso un’area vasta di consenso a partire da quello di Confindustria, avendo come replica quella debole dell’improbabile complotto e della manina invisibile.
Oh, poi ci sono i vescovi. Alla Cei non piace l’addizionale che vien messo nella politica dei respingimenti e nemmeno concorda col merito delle politiche sull’immigrazione. “Rispetto a quanto accade, non intendiamo né volgere lo sguardo altrove, né far nostre parole sprezzanti e atteggiamenti aggressivi”, si leggeva in una nota della Conferenza episcopale di qualche giorno. La Cei non è solo allarmata dall’irrobustirsi di sentimenti xenofobi, la preoccupazione dei vescovi è anche politica: c’è il timore che inquietudini e paure trascurate dalle vecchie classi dirigenti e cavalcate dai nuovi soggetti politici al governo condizionino le scelte strategiche del paese sullo spartito di “un clima di diffidenza e disprezzo, di rabbia e rifiuto”. Anche di confusione. Come pare registri la stessa marina militare. Da cui trapela un profondo disagio per il caos generatosi durante le operazioni in mare. Il 13 luglio scorso un ammiraglio della guardia costiera, che ha mantenuto l’anonimato, denunciava sul Sole 24 ore la confusione operativa indotta dalla sovrapposizione tra politica e propaganda: “Gli annunci sui divieti fatti dal Governo italiano finora non sono stati accompagnati da decreti o da altri atti simili, dalle cui motivazioni (le voci “visto”, “considerato”, “preso atto”) si potrebbero desumere i dettagli. La responsabilità unica ricade sul comandante del porto, cioè sulla Capitaneria”.
Una lettura – quella del cordone protettivo intorno a Tria – che a microfoni spenti viene confermata sia da esponenti leghisti che pentastellati, convinti che l’inquilino di via XX settembre sia, in fondo, il garante politico del Colle, preoccupato da piani B e cigni neri. Un eterogenesi dei fini, in fondo, per Paolo Savona che Tria lo aveva suggerito al ministero a lui inibito
L’opposizione al governo Di Maio-Salvini insomma la trovi altrove rispetto a dove sarebbe ovvio che fosse: dalle parti del Pd per dire, o di Forza Italia. Partiti amletici che si interrogano in pubblico “se sia più nobile nella mente soffrire colpi di fionda e dardi d’atroce fortuna o prender armi contro un mare d’affanni e, opponendosi, por loro fine”. E intanto che si interrogano – occhi conficcati nelle cave orbite del teschio – s’estinguono lentamente in cupio dissolvi.
Lasciata sola dalla Lega, ridotta a tifare l’incidente diplomatico per la detonazione dell’alleanza gialloverde, Forza Italia vive sospesa tra il rimpianto del Nazareno che fu e il sogno di mezza estate d’un nuovo esecutivo di centrodestra a trazione moderata.
Del Pd basti dire che la prima direzione del neosegretario Maurizio Martina ha avuto come ordine del giorno la discussione su un’iniziativa politica dei Cinquestelle: il decreto dignità. Sul quale è emersa una non posizione: Martina lo definisce “un decreto precarietà”, ma poi dà ragione alle minoranze del partito: la misura non va soppressa come vorrebbero alcuni (Stefano Lepri e Deborah Serracchiani tra i primi). Meglio mediare, attendere, riflettere: la dialettica, di cui Martina dice di non aver paura, dipanerà il suo filo. L’idea non ha fretta, diceva Hegel. Intanto Lega e Cinquestelle sommano il 60% del consenso, Pd e Forza Italia insieme non arrivano più nemmeno al 25%. Esistenzialismi politici, lamentazioni filologiche, sindromi da vedovanza governativa: ecco quel che si trova a queste latitudini: l’impotenza che genera manifesti.
L’opposizione va cercata altrove, appunto: nella struttura istituzionale, se così si può dire, e mossa più dal senso pratico delle cose che da una visione politica d’insieme. Un’opposizione che sembra unire i tecnici di governo ai vescovi della Cei, la presidenza dell’Inps alla marina militare: niente a che fare con gli appelli di Saviano, gli acuti di Asia Argento o le magliette rosse di Lerner e preti sociali. Roba di buon senso semmai, di gente che sta attenta, come avrebbe detto una volta Bersani, a non far sfasciar l’architrave della casa comune.
Un’opposizione istituzionale, prepolitica, sistemica. L’unica che c’è.