Il bastone. Leonardo Sciascia li chiamava “professionisti dell’antimafia”, oggi è più redditizio far truppa tra i professionisti dell’antirazzismo. Di costoro, il colonnello è Tahar Ben Jelloun, che probabilmente non ha mai letto Sciascia ma neanche Luigi Pirandello – altrimenti, con oziosa leggerezza, non parlerebbe “dell’umorismo” come del “sapere scherzare senza mai prendersi sul serio” – eppure vent’anni fa ha scritto un patetico pamphlet, Il razzismo spiegato a mia figlia, replicato oggi in funzione anti-Salvini – così pare – e per far cassa – soprattutto – da La Nave di Teseo, con un’imbarazzante Prefazione alla nuova edizione, fin dal titolo (1998-2018: il razzismo è in buona salute). Dopo spiego cosa intendo per imbarazzante, ora limitiamoci al redditizio. Che essere un “professionista dell’antirazzismo” sia redditizio non è una illazione: lo dice Ben Jelloun. “Questo libro ebbe uno straordinario successo… è stato più di un anno al primo posto nella classifica de ‘L’Express’ dei libri più venduti. Le traduzioni erano in corso in non meno di trenta paesi… Le Nazioni Unite gli hanno assegnato un premio legato alla Tolleranza… era stato adottato nelle scuole”. Ben Jelloun sarà pure antirazzista, ma non possiede la buona educazione al pudore. Il libro, che per un bel tot di pagine è un centone di articoli pubblicati anni fa, con un retrogusto rétro francamente stucchevole (e resurrezione del Cavaliere incorporata: “L’atmosfera attuale in Italia è inquietante… per dare prova di fermezza e di azioni, certi ministri del governo Berlusconi alzano le barriere dell’immaginario razzista”), è pieno di frasi imbarazzanti, di imbarazzante ovvietà. Eccone alcune. “La paura nasce dall’ignoranza”; “un bambino non nasce razzista” (consiglio di lettura: Il Signore delle Mosche di William Golding e un chilo di Dostoevskij); “Ogni essere umano è unico… unico, cioè irripetibile”; “La lotta contro il razzismo deve essere un riflesso quotidiano. Non bisogna mai abbassare la guardia”. Ben Jelloun si fa strada con il machete del perbenismo, galvanizzando un genere che si sperava disintegrato per sempre, il “politicamente corretto”. Più che altro, l’analisi del fenomeno razzista è faziosa. Ben Jelloun è di quelli che pensano che il fondamentalismo islamico esista fondamentalmente per colpa del grasso Occidente (che fa ingrassare pure lui, va detto, vada a predicare in Arabia…), “l’islam appare quindi come una risposta identitaria a uno stato che ha dimenticato di prendersi cura di questa popolazione”, d’altronde “è in prigione che questi giovani incontrano l’islam e il radicalismo”. La responsabilità degli atti di terrore è dell’“estrema destra” e pure dei cattivi cristiani (forse sono la stessa cosa): in effetti il razzismo colpisce sempre e soltanto musulmani ed ebrei, mentre i cristiani sono rappresentati da Urbano II che “nell’anno 1095… lanciò, a partire dalla città di Clermont-Ferrand, una guerra contro i musulmani, considerati infedeli”. Tutto il resto, cioè, ad esempio, le parole del Corano contro ebrei (“È per l’iniquità dei giudei che abbiamo reso loro illecite cose eccellenti che erano lecite, perché fanno molto per allontanare le genti dalla vita di Allah; perché praticano l’usura – cosa che era loro vietata – e divorano i beni altrui”, IV, 160-161) e cristiani (“Sono certamente miscredenti quelli che dicono: ‘Allah è il Messia figlio di Maria’”, V, 17), non crea problemi. Certo: anche la Bibbia è piena di violenza, ed è proprio questo il punto. Non bisogna negare che il male esiste, che l’uomo, che in società si dice antirazzista (tutti vogliamo la felicità nostra e altrui, cioè che tutti siano tanto felici da non romperci le palle), è razzista per natura, e che non solo ha paura dello straniero, è terrorizzato anche dal vicino di casa. Non bisogna negare l’identità: ad esempio, quella europea, che è fondata sulla filosofia greca (e i Greci erano alquanto razzisti verso i ‘barbari’) e sul cristianesimo (che supera l’esclusivismo ebraico abbracciando il mondo intero); ma neppure le piccole identità, cioè i razzismi specifici (tra Nord e Sud, tra città confinanti, tra quartieri). Prima di pensare a chi salvare, dobbiamo domandarci per che cosa daremmo la vita. Secondo il Corano, non c’è dubbio, si uccide in nome di Dio (“Non considerare morti quelli che sono stati uccisi sul Sentiero di Allah. Sono vivi invece e ben provvisti dal loro Signore, lieti di quello che Allah, per sua grazia, concede”, III, 169-170), stando al Vangelo, invece, si dona la vita a Dio; il martire cristiano, secondo l’insegnamento di Gesù, è colui che si fa uccidere sperando di interrompere la spirale dell’ira, è disposto a sacrificarsi anche per la vita di un “infedele” (esempio: Charles de Foucauld). Detto questo, l’Occidente al tramonto fa schifo ma è molto più accogliente di altre parti di mondo – non soltanto a maggioranza musulmana – oliate nel pregiudizio, nella tracotanza, nel razzismo. Finita la paternale. Tahar Ben Jelloun, scrittore di cartongesso, pare uscito da un cartone della Disney: al suo cospetto Michel Houellebecq, uno che non dà risposte annacquate ma pone problemi spinati, è l’Allah della scrittura. La sciatteria petulante di TBJ si rivela a pagina 230, quando scrive, “io non boicotterò mai uno scrittore, da qualsiasi posto arrivi e qualunque cosa abbia scritto”. E qui casca il mulo. No, caro TBJ, è inaccettabile per uno scrittore accettare “qualunque cosa”: se uno scrittore ha scritto una stronzata, non solo è giusto boicottarlo ma è pure lecito ricoprirlo di improperi. Questo è il punto, però: se manca una visione estetica non può esserci un pensiero etico. In effetti, il pamphlet di TBJ, nonostante le buone intenzioni – che non servono a nulla in assenza di risultati – istiga al razzismo. Contro la stupidità.
Tahar Ben Jelloun, Il razzismo spiegato a mia figlia (nuova edizione ampliata), La Nave di Teseo 2018, pp.294, euro 13,00
Ben Jelloun sarà pure antirazzista, ma non possiede la buona educazione al pudore. Il libro, che per un bel tot di pagine è un centone di articoli pubblicati anni fa, con un retrogusto rétro francamente stucchevole, è pieno di frasi imbarazzanti, di imbarazzante ovvietà
La carota. Nato da analfabeti, divenne poliglotta, tradusse di tutto, da Ungaretti a Pessoa, da Shakespeare a Goethe, da Kavafis agli adorati russi (Boris Pasternak su tutti), fu amico di Drieu La Rochelle e al soldo del Governo di Vichy, ma era vigilato dalla Gestapo perché passava informazioni ai ‘resistenti’: morì anarchico, solo, dopo una rissa, “per cause mai accertate”, dopo aver pubblicato quel libro prodigioso, La falsa parola, in cui spiega, dispiega e disgrega il sistema della propaganda politica. Il suo epitaffio potrebbe essere questo: “Si capisce perché adesso io preferisca starmene appartato nella mia vita autentica. Non sono ancora prossimi a stanarmi”. Armand Robin, intellettuale agli estremi, inafferrabile, L’indesiderabile, come s’intitola questa antologia che lo porta – evviva – in Italia, amava i poeti e ascoltava le voci. Proprio così: dagli anni Quaranta, prima stipendiato poi per i fatti suoi, s’immerge nelle onde radio del resto del pianeta, ascolta, spia, registra, “a mesi e anni d’intervallo continuavo a sentire il solito frangersi di immense cortine verbali. Mai nessuna speranza di una parola evasa, salvata. Giganteschi universi di parole giravano in tondo, si agitavano, deliravano, senza mai imbarcarsi in alcunché di reale”. L’analisi della propaganda comunista, diffusa da Radio Mosca, è micidiale: “Per i dirigenti dell’impresa sovietica la menzogna non è menzogna; la menzogna non può nemmeno aver luogo… Portando all’estremo l’analisi di un simile comportamento mentale, è evidente che a rigor di logica quei dirigenti sono portati a considerare la verità come eminentemente ‘reazionaria’. Di qui, la costruzione permanente, ogni giorno rinnovata con incredibile accanimento, di un mondo puramente mitico, sovrapposto con tutti i mezzi al mondo reale”. Robin è il pioniere che delinea il mondo della post-verità, il nostro, che sputtana la fake news. Mentre Ben Jelloun rimane, con sovrana colpevolezza, sulla superficie delle cose – conviene sempre: d’altronde, chi lo lincia per aver scritto che il razzismo è una cosa brutta, la pensano così un po’ tutti gli alfabetizzati, che sinistra tautologia… – Robin disossa il vero problema, la comunicazione, il delirio elettorale (“Giorno e notte, instancabilmente, l’apparecchio lancia contro il cervello un gigantesco caos di notizie; in realtà si potrebbe dire che non viene mai detto nulla e che quanto viene detto non è mai nulla; gli avvenimenti non sono più e l’ascoltatore si ritrova di fronte a un’universale assenza di vere notizie”: non è questo mondo, il nostro, ora?). Per vincere la calunnia dei regimi, che imprigionano i vocabolari e i verbi, ci vuole il poeta. “I poeti di questo secolo saranno riconosciuti per avere in ogni circostanza fatto il possibile per inimicarsi i successivi regimi, le polizie, i partiti anche a costo della vita, e ovviamente pagando con le gigantesche campagne di odio e calunnia che esplodono ovunque (alle quali, se necessario, avranno risposto con il sorriso)”. Il poeta contro il potere, esemplificato per Robin da Boris Pasternak, è un “uomo solo”, che “ha rifiutato di barattare contro una serie di privilegi il proprio destino di ‘elemento anti-sociale’”, e abita la rettitudine della gioia.
Armand Robin, L’indesiderabile. “La falsa parola” e altri scritti, Giometti & Antonello 2018, pp.152, euro 18,00