Ci mancava anche la lira, quella turca sia chiaro, perché quella italiana la premiata stamperia Borghi&Bagnai non è ancora riuscita a introdurla. La tormenta sul Bosforo forse non diventerà una tempesta finanziaria internazionale, ma ha già una brutta ricaduta sui mercati e mette di nuovo a rischio le banche. Più esposte sono quelle tedesche, francesi e spagnole; le italiane hanno circa 15 miliardi che comunque non sono noccioline. Il vero allarme per l’Italia si chiama spread e anche il contagio in banca arriva attraverso l’impatto sui titoli di stato. La miccia turca, insomma, può dar fuoco a una santabarbara piena di titoli esplosivi.
Ieri è stato un venerdì nero. Lo spread è salito da 252 fino a 264 punti base, la borsa di Milano è risultata la peggiore d’Europa seguita da Francoforte, Parigi e Madrid, e a soffrire sono state in particolare le banche a cominciare da Unicredit. La Bce è preoccupata per l’eccessiva esposizione della banca milanese che possiede la turca Yapi Kredi Bank, ma sotto osservazione sono anche la francese BNP Paribas e la spagnola BBVA. Particolare inquietudine suscita l’impennata dei Bot annuali che nell’asta di ieri hanno avuto una impennata dello 0,679, la peggiore dal 2014. La tensione sui titoli di stato a sua volta è destinata a ripercuotersi sulle banche. Secondo la Banca d’Italia, a fine marzo le banche italiane avevano titoli di Stato in portafoglio per un totale di 338 miliardi, poco meno del dieci per cento delle attività complessive. I Btp ammontavano a 245,9 miliardi di euro, il resto sono Cct (55 miliardi) e Bot (10 miliardi). La più esposta per quantità di titoli è Unicredit che ne detiene per 53 miliardi di euro, poi Intesa con 51, Bpm con 14, Mps con 17, Ubi con 10 miliardi.
La classifica per quantità non dice tutto, bisogna considerare anche il capitale delle banche. Per esempio, Unicredit vale in borsa 31 miliardi, quindi una perdita di un punto sui titoli di stato incide sul patrimonio borsistico per oltre un punto e mezzo. Meglio per Intesa Sanpaolo che capitalizza 42 miliardi. Stanno veramente male Mps, Bpm e Ubi per le quali la perdita intaccherebbe rispettivamente il 5,3, il 4 e il 3,4 per cento. Sono perdite potenziali, sia chiaro, ma a queste guardano sia gli investitori sia i regolatori di Francoforte. Sappiamo che è aperto un contenzioso con la Bce sul grado di pericolosità dei titoli di stato un tempo considerati a rischio zero, le banche italiane contestano i criteri europei, ma soprattutto chiedono tempo: non possono certo ridurre in un colpo solo la loro esposizione.
Il vero allarme per l’Italia si chiama spread e anche il contagio in banca arriva attraverso l’impatto sui titoli di stato. La miccia turca, insomma, può dar fuoco a una santabarbara piena di titoli esplosivi
Insomma, i guai provocati dalla democrazia autoritaria, la democratura disfunzionale al potere con Erdogan, sono destinati a ripercuotersi direttamente sull’Italia. Le ragioni della crisi sono soprattutto interne, perché la valuta è in caduta da almeno due anni, cioè da quando è fallito il dilettantesco colpo di stato. Da allora la lira ha perso circa il 40% con una accelerazione dall’inizio di quest’anno. L’inflazione supera già il 16 per cento. I titoli di stato hanno ormai un rendimento del 20%, e il mercato delle obbligazioni nel suo complesso ha perduto più di quello argentino. Le aziende del paese hanno un’esposizione di 337 miliardi (217,3 al netto degli attivi). Le banche turche hanno debiti esteri in scadenza per 100 miliardi di dollari nei prossimi dodici mesi, mentre il deficit della bilancia commerciale supera il 6 per cento del pil. Il disavanzo di conto corrente è arrivato a 50 miliardi di dollari e ormai non è più coperto dalle riserve internazionali che ammontano a 45 miliardi di dollari.
Il governatore della banca centrale Erdem Basci, prima delle elezioni aveva alzato i tassi fino a raggiungere il 17,75%, ma a luglio ha cominciato a dire che non c’è più bisogno di nuovi aumenti. A fargli invertire la rotta è stato lo stesso Erdogan contrario a ogni rincaro del costo del denaro. Del resto, il sultano vuole decidere da solo anche sull’economia, così ha affidato l’incarico di ministro al proprio genero, Berat Albayrak del tutto privo di esperienza, e ha cambiato lo statuto della banca centrale per dichiarare a tempo indefinito la scadenza del governatore (cioè sarà il presidente a decidere se, come e quando licenziarlo).
Erdogan se la prende con il solito complotto internazionale. “Loro hanno i soldi, noi abbiamo il popolo e Allah”, ha dichiarato ieri. Ma né dio né il popolo hanno ispirato evidentemente la politica economica che si è rivelata disastrosa, spiega Fadi Hakura del pensatoio britannico Chatham House. Allo scopo di rafforzare la sua linea e vincere le elezioni, il presidente ha spinto al massimo la spesa pubblica con investimenti faraonici (tra i quali il suo palazzo) e si è indebitato alla grande (dal 2008 il debito in dollari ed euro è salito dell’80%). In questa situazione, qualsiasi incidente esogeno può innescare una catastrofe. E l’incidente è avvenuto: è stato imprigionato un pastore evangelico americano, Andrew Brunson, accusato di spionaggio e terrorismo. Donald Trump ha adottato sanzioni contro i due ministri ritenuti responsabili, Erdogan ha risposto con altre sanzioni.
A questo punto può accadere di tutto. Ankara può chiudere i cambi, una misura solo momentanea per una economia ormai fortemente integrata nei mercati esteri. Può fare come Maduro e aprire la strada all’iperinflazione, ma l’economia turca è più articolata e sofisticata di quella venezuelana. Può ricorrere al Fondo monetario internazionale, questo però sarebbe come arrendersi al “grande satana”. Sarà una prova del fuoco per i sovranisti di ogni tipo. L’Italia non può permettersi esperimenti tanto pericolosi alle proprie porte, tanto meno ora che s’avvicina la resa dei conti (cioè la legge di bilancio) e da ottobre a dicembre si chiuderà l’ombrellone del quantitative easing. A lanciare allarmi si commette peccato, ma spesso ci si azzecca.