Il tam tam delle tribù giallo-verdi è diventato un tamburo di guerra. Nazionalizzare, nazionalizzare tutto. “Lo stato deve fare lo stato”, si dice; ma che cosa fa lo stato? Leghisti e grillini non s’accontentano delle funzioni classiche, non basta loro la sicurezza, né il controllo, non è sufficiente nemmeno la protezione dalla culla all tomba. Lo stato deve produrre, gestire in prima persona i servizi, tornare a prima degli anni ‘90, “a prima di Maastricht” come è scritto nel programma. Ma che senso ha tutto ciò? Davvero qualcuno pensa allo “stato pasticciere”? Oppure c’è del metodo dietro questo furore social-populista? I filosofi della politica sostengono che, in realtà, sovranismo e statalismo vanno a braccetto. Le vere ragioni, però, non si trovano nell’alto regno delle idee, bensì nel basso impero degli interessi.
Potremmo chiamarlo risiko populista o appropriazione dei gangli vitali. La tentazione è forte e rischia di diventare una operazione di puro potere con pochi precedenti nella recente storia italiana. La prima mossa s’è vista con le nomine alla Cassa depositi e prestiti che rappresenta lo strumento chiave di questo disegno. L’ultima è lo spregiudicato utilizzo del dramma di Genova. In mezzo ci sono l’Ilva, la rete telefonica, la Rai, le Ferrovie dello stato, l’Alitalia.
Proprio le Fs dovrebbero fare da capofila ai nuovi “capitali coraggiosi” candidati a prendere in mano la compagnia di bandiera per riportarla ai passati splendori. Solo che questa volta non di capitali privati si tratta, bensì di denari dei contribuenti (convertendo in azioni il prestito ponte da 900 milioni di euro, dirottando risorse che le ferrovie dovrebbero dedicare a migliorare i treni pendolari, utilizzando il risparmio postale).
Lo stesso criterio vale per gli altri dossier in campo. Prendiamo l’Ilva. Se gesti e parole di Luigi Di Maio hanno una logica, l’obiettivo è far uscire ArcelorMittal con un continuo gioco al rialzo, nonostante la loro acquisizione abbia tutti i crismi della legalità, secondo il parere del Consiglio di stato. Non sarà facile, gli anglo-indiani venderanno cara la pelle, ma di fronte alla ostinata resistenza del governo e delle autorità locali, può darsi che decidano di gettare la spugna. A quel punto si materializza la onnipresente Cdp, magari insieme a un pezzo della cordata perdente, quella che comprendeva anche l’industriale veneto Amenduni (ben noto ai leghisti) che si sta curando le ferite inferte dal coinvolgimento nella crisi della Popolare di Vicenza (era stato il primo azionista) e di Veneto Banca, costato circa un centinaio di milioni.
Questo risiko al quale si possono aggiungere via via altre caselle, ha un senso politico abbastanza evidente. Si tratta di costruire i propri “poteri forti”, con qualche vecchio potere che si ricicla, con qualche potere amico, ma soprattutto con una nuova classe di boiardi non più scudo-crociati né rossi, ma giallo-verdi
La faccenda della rete telefonica di Tim è così ingarbugliata che né il centro-destra né il centro-sinistra sono riusciti a sciogliere il nodo. Dove hanno fallito Berlusconi e Renzi avranno successo Salvini e Di Maio? Finora hanno detto che la rete va collocata in una società pubblica, un po’ come è accaduto per la distribuzione elettrica. Le cose sono molto più complicate, intanto perché Tim è una società privata che ha in bilancio la rete per oltre 14 miliardi. Chi li paga? Tecnologicamente, l’unico punto di contatto è l’impulso elettrico, tutto il resto è enormemente diverso. C’è poi lo scontro in corso sulla proprietà e, dai segnali finora inviati, sembra che sia la Lega sia il M5S vorrebbero far fuori la Vivendi di Vincent Bolloré. Per favorire chi? Hanno un “imprenditore di riferimento” e una banca di riferimento?
Intanto possono contare su un editore come Urbano Cairo il quale soprattutto con La7, ma anche con il Corriere della Sera si è dato da fare per “sdoganare” i grillini (quanto ai leghisti la sintonia è di più lunga lena). Adesso c’è la Rai che Beppe Grillo vuole spacchettare. Una idea che, a quel che sembra, ha conquistato anche Giancarlo Giorgetti nel suo gran disegno di mettere mano a tutte le concessioni. Vuoi vedere che una rete viene messa in vendita, come prevedeva vent’anni fa la legge Maccanico? E magari finisce proprio a Cairo? A pensar male, come si sa, spesso ci si azzecca.
E veniamo ad Autostrade. Non è chiaro se la revoca della convenzione minacciata da Giuseppe Conte riguardi solo l’A10. Ma anche se così fosse, sarebbe solo l’inizio della fine. A quel punto, chi prenderebbe il posto della famiglia Benetton? C’è qualche industriale amico, magari che già opera nel settore? La rete potrebbe essere spezzata e una parte andare a Gavio o ad altri. Quel che sembra del tutto irrealistico è che l’Anas possa prendersi in blocco l’intera società Autostrade. Non ne ha i quattrini (e non ce li ha nemmeno il governo che non riesce a trovare risorse per il reddito di cittadinanza e la flat tax), non ha la capacità manageriale e non possiede più nemmeno la reputazione gestionale e imprenditoriale necessaria (ammesso che nell’era del Grande Leviatano sia stata un fulgido esempio di efficienza e perseguimento dell’interesse collettivo).
Questo risiko al quale si possono aggiungere via via altre caselle, ha un senso politico abbastanza evidente. Si tratta di costruire i propri “poteri forti”, con qualche vecchio potere che si ricicla, con qualche potere amico, ma soprattutto con una nuova classe di boiardi non più scudo-crociati né rossi, ma giallo-verdi. Tuttavia, questa operazione trasformista ha davvero un senso economico? In attesa che i pensatoi grillini e leghisti sfornino il loro gosplan, ci sia consentito di dubitarne.