Foa, Conte, Salvini e l’antico vizio italiano di sostenere tutto e il contrario di tutto

Foa si considera discepolo di Montanelli, ma continua a condividere false notizie online. Conte si dice di sinistra, ma è premier di un governo di destra. Salvini era secessionista e ora è nazionalista. Benvenuti nel Paese del doublespeak. O, se preferite, del bispensiero

Pochi giorni prima di essere nominato nel consiglio di amministrazione della Rai, Marcello Foa ha “postato” sui social una lettera inviata a Montanelli quando era redattore del Giornale, rivendicando di essere stato e di considerarsi ancora un suo discepolo. Nulla di male: uno in più tra i tanti. Ma l’orgoglioso riconoscimento suscita una domanda: qual è il percorso che porta da Montanelli alla condivisione delle peggiori bufale via internet, alle simpatie complottiste, alla visione del mondo come macchinazione che emerge dai suoi post?

La risposta è semplice: un percorso non c’è. E nessuno, tutto sommato, si preoccupa di cercarlo. Perché in Italia, nemmeno ai consiglieri Rai è richiesta coerenza. Nella vita della Penisola a farla da padroni sono il “doublespeak” che dice una cosa e il suo contrario, l’affermazione che nega, l’arabesco come linea più breve che unisce due punti (Flaiano dixit). Così nella stessa settimana ci si può richiamare al rigore intellettuale del maestro di Fucecchio e ritweettare i post di Francesca Totolo, facendo di tutto un’unica grande melassa indistinta.

Parlare tout court di opportunismo intellettuale in casi come questo non coglie il bersaglio. Opportunismo può essere quello del vice premier Luigi Di Maio che in campagna elettorale stronca la flat tax (“è una bufala, sarebbe il caso di chiamarla flop tax, applicarla sarebbe una follia”) e ora, arrivato al governo, si appresta a vararla. Oppure quello del premier Giuseppe Conte, uomo “orgogliosamente” di sinistra che sale a gran velocità sul vagone giallo-verde. Virate facilmente e immediatamente etichettabili nella categoria dell’opportunità tattica: si intuisce uno spazio, una nicchia di mercato, una convenienza e si agisce di conseguenza.

In altri casi è diverso, c’è qualche cosa di più, si parla di idee, di percorsi culturali e politici. Prendiamo per esempio uno dei riferimenti di Foa, Matteo Salvini. Nel 2011, anno del 150esimo dell’Unità italiana, proclamava con convinzione che non si sentiva affatto rappresentato dal tricolore. Il 17 marzo, data scelta per le celebrazioni ufficiali, per far vedere che era al lavoro fece trasferire la sua scrivania di consigliere comunale milanese in piena Piazza della Scala. La radio di cui era direttore, radio Padania, avviò alle 9 del mattino una non-stop dal titolo eloquente: “Io non festeggio”. Pochi, pochissimi anni dopo, lo ritroviamo con il cervello sottosopra e sovranista sfegatato: “Prima gli italiani”, anzi, “Tutto per gli italiani”.

In Italia, nemmeno ai consiglieri Rai è richiesta coerenza. Nella vita della Penisola a farla da padroni sono il “doublespeak” che dice una cosa e il suo contrario, l’affermazione che nega, l’arabesco come linea più breve che unisce due punti (Flaiano dixit). Così nella stessa settimana ci si può richiamare al rigore intellettuale del maestro di Fucecchio e ritweettare i post di Francesca Totolo, facendo di tutto un’unica grande melassa indistinta.

Chi può dubitare della “sincerità” delle sue posizioni, così come erano del tutto “sincere” le precedenti? Allo stesso modo, chi può dubitare dell’appassionato tifo milanista dell’Emilio Fede degli anni berlusconiani, anche se qualcuno si ostinava a ricordare una sua precedente passione bianconera?

Per tornare a Foa, c’è chi può avere difficoltà a conciliare le sdegnate denunce contro gli stregoni della notizia, che perfino dall’interno delle istituzioni manipolano l’opinione pubblica, e le sue cordiali apparizioni su Russia Today, la tv creata e pagata dal Cremlino. Chissà, forse i manipolatori dei sistemi democratici sono più pericolosi di quelli al servizio degli autocrati. Allo stesso modo sarebbe ingeneroso cercare una coerenza tra la carriera del figlio, brillante bocconiano, ben inserito nella squadra degli spin doctor salviniani, e le tirate del padre contro la stessa categoria degli spin doctor, a cui i giornalisti finiscono per credere “tradendo la loro missione”.

Può essere interessante ripescare un libro di qualche anno fa, “Tempi di malafede”, in cui Sandro Gerbi ha raccontato la storia parallela di Eugenio Colorni e Guido Piovene, amici fraterni in gioventù e poi separati da due biografie opposte. Uno morto durante la Resistenza, l’altro celebrato giornalista dalle innumerevoli giravolte politiche e culturali: prima fascista, poi in due fasi diverse comunista, infine “gran borghese” montanelliano. Per spiegare la differenza tra l’autorità morale del primo e l’ambiguità del secondo, Gerbi ricorre a un passo di un testo letterario dello stesso Piovene (“Lettere di una novizia”, pubblicato nel 1941) che dice molto su certe abitudini italiane: “I personaggi di questo romanzo”, scrive Piovene, “sebbene diversi tra loro, hanno un punto comune: tutti ripugnano dal conoscersi a fondo. Ognuno capisce sé stesso solo quanto gli occorre; ognuno tiene i suoi pensieri sospesi fluidi, indecifrati, pronti a mutare secondo la sua convenienza…Se noi vogliamo dare a questo comportamento il nome che gli compete, siano forse costretti a definirlo malafede. La malafede è un’arte di non conoscersi, o meglio di regolare la conoscenza di noi stessi sul metro della convenienza”. È la stessa conclusione a cui arrivò un altro scrittore, Giuseppe Pontiggia, che decise di esprimersi sotto forma di aforisma: “in Italia si mente anche a se stessi e la si chiama buona fede”.

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