Genova, quel ponte sbriciolato è l’Italia

Il ponte Morandi è più che una metafora dell’Italia. È l’Italia. L’incarnazione di un paese adagiato su glorie passate, privilegi, e comodità che si sbriciolano. E con nessuna voglia di porre riparo alla situazione

L’immagine del ponte degli anni ’60 che crolla è l’immagine perfetta di un Paese che pensava di vivere per sempre sulle spalle degli anni ’60 e improvvisamente ha visto sbriciolarsi la terra da sotto i piedi.
Per oltre mezzo secolo, abbiamo creduto si potesse vivere sospesi, paralizzati in un eterno presente e, rifiutandoci di andare avanti, su quel ponte di calcestruzzo abbiamo costruito un microcosmo indifferente ad ogni agente esterno, come microbi occupati per decenni a contendersi il dominio dell’atomo.
Per tutti gli altri, il viaggio è proseguito: sono stati scoperti altri paesaggi, sono stati costruiti altri ponti. Per noi no. Noi abbiamo fatto dell’immobilismo la nostra ragione di vita, issandolo ad unica ideologia in nome della quale abbiamo messo alla forca chiunque si sforzasse di guardare avanti, convinti che il futuro fosse un mostro da evitare, e il resto del mondo un luogo che non valesse la pena vedere, se non in villaggi turistici dove servono la pasta al pomodoro e un espresso fatto come si deve.

Siamo stati felici di consegnarci all’abbraccio di chi ci ha assecondato, abbiamo voluto credere solo ed esclusivamente ai pifferai che ci offrivano come unica garanzia la promessa che non sarebbe cambiato niente. Si scrive “debito pubblico”, si legge distruzione organizzata e sistematica del futuro per rattoppare l’esistente, un rammendo dopo l’altro, perché provare a cambiarlo davvero avrebbe voluto dire rischiare di perdere i nostri privilegi da microbi, via via più piccoli fino a diventare inesistenti, di cui godevamo sul microcosmo-ponte.
Non è assolutamente vero che ce ne siamo fottuti, che non sapevamo, che non ce ne eravamo accorti, che eravamo in buona fede: sapevamo e vedevamo tutto benissimo, e vigilando attentamente affinché le cose non cambiassero mai, se non abbiamo fatto nulla è perché su quel ponte siamo stati da Dio. A coprirci a vicenda, a tollerare il peccato dell’altro con il tacito accordo che l’altro avrebbe tollerato il nostro a sua volta, in un suk di favori e contro-favori che aveva come unico obiettivo quello di eliminare fisicamente chiunque avesse il talento o l’ambizione necessaria per provare a cambiare le cose, spingendoci a proseguire.

Si scrive “debito pubblico”, si legge distruzione organizzata e sistematica del futuro per rattoppare l’esistente, un rammendo dopo l’altro, perché provare a cambiarlo davvero avrebbe voluto dire rischiare di perdere i nostri privilegi da microbi, via via più piccoli fino a diventare inesistenti, di cui godevamo sul microcosmo-ponte

Non è in causa la classe politica, né la classe dirigente, né quella imprenditoriale. In causa siamo noi e il nostro eterno Ferragosto, da cui nulla ci ha scosso e nulla ci scuote, nemmeno il disastro ieri, come si vede negli stabilimenti balneari di tutta la penisola in queste ore: il vero problema è l’allerta meteo che potrebbe rovinare l’anguria già in ghiaccio, non certo le decine di morti di ieri.
Vittime non di un disastro che altrove sarebbe imprevisto come il crollo di un ponte, ma proprio come quelle del terremoto dell’Aquila o di Amatrice, delle innumerevoli alluvioni o della slavina di Rigopiano, vittime di un fenomeno prevedibilissimo: l’Italia.
I sintomi sono diversi – una volta le case abusive costruite con materiali scadenti, un altro i soccorsi mandati in ritardo, un altro ancora un allarme lanciato tre anni fa e completamente inascoltato – ma la malattia è sempre la stessa: il rifiuto costante di assumersi una responsabilità nei confronti di chi verrà dopo. Tanto ci sarà sempre una vignetta satirica o un barcone su cui scaricare la rabbia per essere sicuri che anche stavolta non accadrà nulla, e un cagnolino eroe o un pikkolo angelo buono a lavarci la coscienza, e a farci sentire di nuovo la brava gente che crediamo di essere.

Potevamo provare a rimetterci in marcia negli anni ’80, quando le cose andavano bene; oppure potevamo farlo in questi ultimi anni, quando le cose andavano malissimo, sfruttando quell’istinto di conservazione che spinge solitamente a gettare il cuore oltre l’ostacolo, ad accettare i sacrifici più duri per cercare di raddrizzare la propria sorte. E invece abbiamo scelto di non fare niente, di restare in vacanza, fermi a cavalcioni sulle spalle del nostro passato. E anzi, per meglio difendere le ultime pezze al culo siamo riusciti ad inventarci dei pifferai nuovi di zecca, talmente surreali nei modi prima ancora che nei contenuti, da far sembrare quelli di ieri degli statisti. E come capolavoro finale, siamo perfino riusciti a rispolverare dal baule dei cimeli di famiglia sentimenti e nostalgie che se fino a ieri facevano ridere oggi fanno piangere di tristezza.
Per questo, al culmine di un’estate “italianaaa” in cui non si è fatto altro che parlare di chi è disposto a morire per venire da noi, dal nostro cumulo di macerie fumanti l’unica cosa rimasta da fare sarebbe avere, perlomeno, il coraggio di alzare le mani bene in alto e mettersi a gridare, invitandoli a fermarsi adesso che sono ancora in tempo.
Non venite in Italia. Lasciateci morire in pace.

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