Lo racconta Yevgenia Ginzburg: quando era in prigione sotto Stalin, negli anni ’30, ebbe modo di notareun fatto curioso. “Nei giorni in cui il nostro vicino di cella andava in bagno prima di noi – cosa che potevamo capire sentendo i suoi passi nel corridoio – ci capitava sempre di trovare, al momento del nostro turno, nel ripiano del bagno, la scritta “Saluti”, tracciata con una spilla sulla polvere per lavare i denti. Quando tornavamo in cella sentivamo dei battiti strani sulla parete, e poi più nulla”.
Ci volle un po’ di tempo perché lei e la compagna di cella realizzassero che si trattava di una forma di saluto. “I battiti sulla parete ripetevano la parola Saluti scritta nella polvere”. L’illuminazione, spiegò, le derivò anche dal ricordo, improvviso, di un libro che aveva letto anni prima in cui si spiegava il codice adottato dai prigionieri nelle prigioni zariste.
“L’alfabeto veniva riscritto in un rettangolo, più o meno così:
A B C D E
F G H I J
K L M N O
P Q R S T
U V W X Y
(come è ovvio, nel caso delle carceri russe l’alfabeto è quello cirillico)
Ogni battito lungo indicava la riga, quello breve la lettera. Per cui tre battiti lunghi e due brevi volevano dire “L”. Era un sistema lungo e noioso, ma era anche l’unico abbastanza sicuro. “A quel punto fummo in grado di capire il senso di quei battiti sul muro”. La loro vicina le stava salutando. E loro risposero, dando inizio a una lunghissima, ancorché lenta, conversazione.