La trilogia di Meghan March? Letteratura per bigotte frustrate. Se cercate vero erotismo leggete Tanizaki

Il bastone e la carota. Un libro stroncato e uno elogiato alla settimana. I libri della March sono pornolatria letteraria, vanno bene solo se l'editore pensa che le donne siano cretine. I deliri del corpo meritano una penna intinta di rabbia e fuoco, scrittori cazzuti come Tanizaki o Parente

Il bastone. Le donne desiderano un corpo da urlo, una minchia pronta all’uso e un maschio muscoloso, mafioso e cattivo, che le violenti mane e sera. Dicessi questo in pubblico – concetto che non mi scompone il ciglio: si sa che gli uomini vogliono solo quella e le femmine anelano all’affare – una falange di fiere Baccanti mi volgarizzerebbe il bel visino, a sassate. In realtà, questo è ciò che si ricava distillando la morale dai libri di Meghan March, autrice della ‘Mount Trilogy’, trilogia erotico-pacchiana, arlecchinesca e cafona, costituita da tre tomi dai titoli talmente elementari che pretendono, per essere compresi, un cervello a sistema binario: King, Queen, Desire. La queen si chiama Keyra Kilgore – ogni assonanza con Keyra Knightley pare voluta, voluttuosa – e dirige, rossa e bellissima secondo i canoni da romanzo rosa (descrizione anatomica dell’amica: “hai tette, culo e quei meravigliosi capelli rossi che a un uomo fanno pensare che sentirà il fuoco quando ti avrà sotto di lui…”), una fabbrica di whisky sull’orlo del tracollo finanziario. A fare un mucchio di debiti è stato Brett, quel minchione del marito di Keyra, e ora king, cioè quel duro – in tutti i sensi – di Lachlan Mount, li vuole riscuotere. Soprattutto, però, gl’interessa riscuotere e percuotere la vulva della queen, più che al soldo pensa al sesso matto. Tra i due, il king e la queen, va da sé, scoppia il desire: più Keyra è seviziata dal macho mafioso – il quale non è proprio un Kierkegaard della seduzione, qualsiasi gemito estrapolato da YouPorn è più sapido di questa frase idiota: “quand’è stata l’ultima volta che sei stata scopata da un vero uomo?… Ti scoperò come hai supplicato tutta la vita di essere scopata” – più gode come una assatanata (“non ho mai bramato nessuno più di lui”: notate il verbo vagamente vintage, bramato che messo così pare il barrito di un cretino). Il gioco va avanti così per tre libri, l’autrice probabilmente prova libidine nel tedio, che ginnica rottura di palle, più che attizzare le voglie, le sgonfia. Tuttavia, il ciclo è un utile abbecedario per capire l’avvilimento narrativo a cui siamo giunti: la scrivania di Keyra è “d’epoca”, le mani di Lachlan sono “grandi”, gli avambracci “abbronzati” e ovviamente il “profumo” del king, dell’uomo dominante, che nel secondo libro spacca le mani a un tizio con scarpe rigorosamente “italiane”, è “pericolosamente sensuale… un’intensa esplosione di limone mescolato a spezie e cedro” (mi viene il vomito). Tutto è posticcio, già postumo, una presa per i posteriori: “sono fottuta. E, a quanto pare, a fottermi sarà Lachlan Mount”, gorgheggia la vogliosa Keyra, ma qui, in verità, a essere fottuto è il lettore pagante che si trova tra le chiappe un fake book. I problemi, a questo punto, sono due. Il primo è editoriale. La ‘Mount Trilogy’ è pubblicata da Sem, marchio fighetto – il logo ricorda quello della Fiat o di una pasticceria vecchio stile – che sviolina autori ‘di qualità’, da Antonio Moresco a Dacia Maraini, da Ferruccio Parazzoli a David Leavitt, poi propina questo ‘pacco’ stracotto. Utile studiare il packaging, appunto, l’unica cosa che conta (per fare la conta delle copie vendute): copertina che scimmiotta il ciclo per scimmie “Cinquanta sfumature di…”, e sito specifico dove i libri sono proposti come “la trilogia più calda dell’estate”, insomma, una specie di stimolatore vaginale. Detto questo, che le femmine abbiano soltanto voglia di verga, che il chiodo fisso sia quello di essere sbattute al muro dal maschio alfa (della serie, “trova la mia passera, già fradicia… ‘dimmi che vuoi il mio cazzo. Solo il mio’”), non inquina il mio vigore morale, anzi: fare sesso fa bene alla salute, scopare è bello, desiderare l’illecito è l’unica cosa davvero lecita. Ma qui si parla di letteratura, anzi, di post-letteratura, di pornolatria letteraria. L’editore, in questo caso, non pensa alla vulva o al cervello puberale della femmina, pensa che la femmina, per sua natura, sia una cretina che si eccita se uno le fa volteggiare davanti agli occhi la parola cazzo. Insomma, è letteratura per frustrate. Che pena. Ma le assatanate movimentiste del MeToo dove stanno, tutte a leggere ’ste scemate? Cosa dobbiamo fare, scatenare nella redazione di Sem una bordata di Asie Argento in calore?

Meghan March, “Mount Trilogy”: King, Queen, Desire, Sem 2018, pp. 208 ciascuno, euro 14,00 (Quenn e Desire) e 10,00 (King)

La carota. Siamo regrediti all’analfabetismo sessuale – eppure, la più raffinata forma di genio letterario si esprime scrivendo di sesso. I romanzi di Meghan March dimostrano che siamo in un’era bigotta e annoiata – puoi rigirarti le pudenda come ti pare, farti da uomo a donna e viceversa, ma alla fine sotto le lenzuola è la stessa leziosa noia – e che il cervello femminile, un tempo esteticamente dotatissimo, ora razzola nel greve, nell’ovvio, razza di galline. Più che rivoltarsi nei rivoltanti romanzi della March, allora, tanto vale tornare alle origini, a Edipo che si tromba la madre, Giocasta, a Fedra che violenta il figliastro, Ippolito, a Pasifae che si fa montare dal toro: i greci hanno fatto di tutti i tabù, i più scandalosi – l’incesto, l’amore illecito per la bestia – mito e opera d’arte. D’altronde, c’è più sesso selvaggio nella Bibbia, nel Cantico dei cantici, nell’apparire di Betsabea, nuda, nella casa di fronte a quella del re Davide (“Un tardo pomeriggio Davide, alzatosi dal letto, si mise a passeggiare sulla terrazza della reggia. Dalla terrazza vide una donna che faceva il bagno: la donna era molto bella d’aspetto”), che nei bigini dell’insoddisfazione erotica della March. I deliri del corpo necessitano una penna intinta nella rabbia, raffinata nel fuoco: l’esegesi sessuale, la catabasi nelle estreme voglie, pretende uno scrittore cazzuto. Tra i classici dell’eros, preferisco – come Rainer Maria Rilke, che lo venerava – Lettere di una monaca portoghese, pubblicato anonimo a Parigi nel 1669, in cui la religiosa – nella cella solitaria e masturbatoria – piglia a male parole l’ufficiale francese che l’ha sedotta, corrotta e abbandonata. Affondi acuti e accuse mandano in estasi: “Vi sfido a dimenticarmi completamente; m’illudo di avervi messo in condizione di non provare senza di me che piaceri imperfetti”; “che almeno la violenza della mia passione vi disgusti e vi renda indifferente a tutto”; “vorrei avere anche un ritratto di vostro fratello e di vostra cognata; amo tutto ciò che ha a che fare con voi e sono attaccatissima a quanto vi riguarda; mentre non sono disponibile verso me stessa”. In Italia, l’unico capace, oggi, a narrare il sesso come qualcosa che va al di là del catechismo sociologico, della rivalsa di genere o dell’ostia teologica è Massimiliano Parente La Macinatrice o Contronatura, scegliete – per il resto, sono preferibili le sevizie nipponiche. Ryu Murakami, con Tokyo Decadence, ormai introvabile, ha scritto uno dei libri più cruenti e lirici del ‘genere’; altrimenti, tanto vale rileggersi Junichiro Tanizaki. Dal Diario di un vecchio pazzo, in cui il protagonista ha l’ossessione per i piedi della nuora, e “a parità di bellezza nei dettagli, mi sentirò più attratto dalla donna malvagia” a Il demone, racconto della giovinezza, in cui un ragazzo, Saeki, va in pappa per la cugina, fino a “leccare avidamente, come un cane” il suo fazzoletto, “imbevuto di muco”, il desiderio è sempre delirio incontenibile, che si aizza nell’assenza, che si sfoga nella schiavitù. L’uomo, in questo caso, è schiavizzato dalle volubili voglie di donne ipnotiche, da cui è stregato. Oggi le donne – a leggere la sostanza dei romanzi che ‘tirano’ – vogliono la verga violenta, il macho da portare dal talamo selvatico all’altare – perché poi, piccoloborghesi, tutto finisce lì, nella conversione dalla sculacciata alla famiglia. Ma al desiderio si adempie con spregiudicata spietatezza stilistica: gli uomini lo fanno meglio.

Junichiro Tanizaki, Il demone, Einaudi 2010

Anonimo, Lettere di una monaca portoghese, Marsilio 1991

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