La triste fine di Milano, da città modello a (inutile) vetrina per le multinazionali

Secondo l'Economist Milano è solo la quarantaseiesima città più vivibile al mondo. Un piazzamento che sfata la mitizzazione di una metropoli da sempre più efficiente di altre città italiane, ma non priva di problemi. E che negli ultimi tempi si è trasformata tradendo la propria storia

PIERO CRUCIATTI / AFP

È uscita una nuova classifica dell’Economist sulle metropoli più vivibili al mondo in cui Milano arranca al 46esimo posto.

Pur avendo l’ambizione di misurare il valore di un luogo in maniera oggettiva – basandosi su parametri quali i servizi offerti, le infrastrutture, la cura per l’ambiente e via dicendo – è evidente come queste classifiche abbiano valore relativo: la Milano di Bobo Vieri è sicuramente molto diversa dalla Milano del rider Foodora, ed esprimere valutazioni assolute è giocoforza un azzardo.

Ma visto che sono state proprio classifiche del genere ad armare le lingue dei tanti che, da Expo in poi, hanno riversato sulla Madonnina un fiume di bavosa retorica, allora per onestà intellettuale tocca far la stessa cosa oggi, prendendole sul serio.

Da anni, in Italia si può criticare tutto, pure il Papa, ma guai a prendersela con Milano. Culla del socialismo prima e del berlusconismo poi, parlare male del capoluogo lombardo equivaleva mettersi contro buona parte dell’establishment di casa nostra. La situazione, se possibile, è degenerata con la vittoria di Pisapia del 2011: a partire da quel momento, Milano è stata trasformata nell’equivalente italiano della Mecca, una città santa che ha generato un vero e proprio culto pagano, i cui adepti vigilano sui social per assicurarsi che nessuno osi nominarla invano.

La verità è che Milano è sempre stata più efficiente, organizzata e funzionale rispetto ad altre città italiane cui viene ciclicamente paragonata; ma come tutti i luoghi delle Terra, ha sempre avuto anche una serie di problemi endemici di cui sarebbe stato utile parlare.

Per esempio, ha sempre fatto una fatica boia a valorizzare il proprio patrimonio artistico: è la quarta città d’arte in Italia, ma buona parte di chi ci vive non ha mai sentito parlare di tesori come la Chiesa di San Satiro o la Cascina Linterno. È sempre stata ossessionata dal suo centro, come se vivere oltre la famosa cerchia dei bastioni fosse peccato mortale, dimenticandosi della periferia e spesso abbandonandola al degrado. Non ha mai voluto affrontare seriamente il problema delle infiltrazioni mafiose, come se ogni volta si trattasse di un’eresia: eppure era il 1974 quando Luciano Liggio, primo Capo dei Capi, venne arrestato proprio a Milano, dove gestiva i suoi affari dalla casa di via Ripamonti.

La critica avrebbe potuto servire da stimolo, nel contesto di un secolo spietato in cui si gioca tutti contro tutti e la gara si è obbligati a farla non con Roma ma con Amsterdam, Londra e New York.

La verità è che Milano è sempre stata più efficiente, organizzata e funzionale rispetto ad altre città italiane cui viene ciclicamente paragonata; ma come tutti i luoghi delle Terra, ha sempre avuto anche una serie di problemi endemici di cui sarebbe stato utile parlare

E invece si è scelto di far finta di niente, e salutare ogni alberello, ogni panchina per anziani, ogni kilometrino di pista ciclabile come un prodigio. Cose fatte ovunque, a Milano sono state accolte facendo roteare i pugni in aria dalla gioia, come se si trattasse ogni volta di una vittoria decisiva per il futuro.

Così i problemi sono aumentati, e come certifica la classifica dell’Economist, uguale a quelle che un tempo eccitavano i menestrelli a contratto, gli alibi sono finiti.

La situazione in periferia, nonostante gli slogan, non è affatto migliorata: basta scendere alla stazione di Rogoredo per avere la sensazione di trovarsi sul set di The Walking Dead in mezzo agli zombie, o farsi una passeggiata in piazza Prealpi o Ponte Lambro per sentirsi su quello di Gomorrah. Certo, si può far finta che la periferia non esista, e organizzare una cena di beneficienza in Galleria offerta da Cracco in cui sfoggiare un abito chic, o una bella tavolata al Parco Sempione a cui andare vestiti come nelle assemblee di istituto: ma i problemi restano, e se non trovano soluzione, e nemmeno ascolto, fermentano e si trasformano in qualcosa di molto pericoloso.

Ma l’aspetto più grave di questa “rivoluzione culturale” che ha trasformato Milano in una vecchia sciura arrogante è stato il tradimento consumato nei confronti dellla storia e della tradizione della città.

Milano è sempre stata una città giovane, ribelle, in continua evoluzione, che ha trovato nella lotta la propria ragione d’esistenza.

È stato così all’inizio, quando si chiamava Mediolanum, e i suoi abitanti tramavano già allora contro Roma; durante le Cinque Giornate del 1848, con la rivolta che fece da overture all’Unità d’Italia; e per tutto il corso del Novecento, dalla Resistenza agli anni della contestazione giovanile.

Costretta al ruolo di monumento, lei che da ribelle anarchica aveva sempre preferito essere il piccione che si posa in testa ai monumenti per espletare i propri bisogni corporali, Milano è andata incontro ad una crisi di identità tale da restarne paralizzata.

Siamo ancora fermi a discutere sul futuro dell’area Expo anche se dalla fine di Expo sono passati tre anni. Siamo ancora alle prese con il traffico dei cantieri della metropolitana nuova in ritardo o a pubblicare foto su Instagram di quelle disabitate case dei fantasmi che sono i grattacieli di City Life o Porta Nuova: roba immaginata vent’anni fa dalle giunte di centro-destra, cui è seguita una lunga fase di vuoto estenuante – si veda la vicenda degli scali ferroviari – in cui le uniche grandi opere capaci di catalizzare l’interesse dei cittadini hanno finito per riguardare due multinazionali americane.

Costretta al ruolo di monumento, lei che da ribelle anarchica aveva sempre preferito essere il piccione che si posa in testa ai monumenti per espletare i propri bisogni corporali, Milano è andata incontro ad una crisi di identità tale da restarne paralizzata

Da una parte Starbucks – la cui apertura sta venendo accolta con lo stesso entusiasmo che a Mosca, dopo la caduta del comunismo, circondava l’arrivo di Mc Donald’s – e dall’altra Apple, cui è stato permesso di stravolgere l’aspetto di una graziosa piazza del centro per costruire il suo negozio dove prima c’era un cinema, in cambio di qualche spicciolo per sistemare un pezzettino di periferia.

È evidente che una città con la storia e la tradizione di Milano si meriti ben altro, e non possa vivere di simili espedienti. Non ci si può gasare per qualche posto di lavoro da barista o pensare di risolvere i problemi delle periferie grazie alle mancette delle corporation americane, lasciando che modifichino, a proprio piacimento, l’aspetto di una città dalla storia secolare: sennò la prossima volta che bisogna sistemare una periferia che si fa? Si converte il Castello Sforzesco in un centro di smistamento di pacchi Amazon? Si veste la Madonnina con la borsa Louis Vuitton?

Tirare a campare non è abbastanza. L’onestà, da sola, non basta, altrimenti facciamo prima a consegnare tutto al Movimento Cinque Stelle e al populismo.

Servono competenza, visione, coraggio di rischiare. Serve assolutamente un progetto forte che faccia il bene della città e dei suoi cittadini nel lungo termine e non quello dei suoi amministratori nel breve, che sfruttando la proverbiale operosità e generosità dei milanesi si costruiscono un’immagine da spendersi nel contesto politico nazionale.

Bisogna capire cosa debba essere Milano oggi e quale ruolo voglia ricoprire, cominciando a stabilire – una volta per tutte – se Milano voglia essere una “città-stato” autonoma, chiusa in se stessa, oppure ambisca a diventare la guida di un Paese in difficoltà.

Se vuole essere autonoma, allora abbia il coraggio di fare come Barcellona, i suoi supporters scendano in piazza come hanno fatto i catalani e i suoi leader rischino in prima persona la galera.

Se invece vuole essere guida, la pianti di guardarsi l’ombelico, e accetti gli oneri e le responsabilità che questo ruolo richiede.

Incluso, ovviamente, il saper accettare le critiche, per non andare a letto sicura d’essere tra le prime e poi svegliarsi quarantaseiesima.

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