Lo ha ribadito il Ministro Tria in questi giorni: per portare avanti il programma economico del Governo servono coperture e risorse. E con i risicatissimi margini di manovra a disposizione – il burrone di una crisi con quella del 2011 è dietro l’angolo e Tria ne è ben consapevole – sembrerebbe inevitabile l’aumento delle aliquote IVA generato dalle clausole di salvaguardia.
Quello delle clausole di salvaguardia è un meccanismo alquanto bizzarro. Introdotto per la prima volta dal Ministro Tremonti nel 2011 per segnalare a investitori e osservatori internazionali una certa credibilità nelle manovre di bilancio, prevede che in assenza di opportune coperture alle misure che creano disavanzo nei conti pubblici, si attivino automaticamente misure di riduzione del deficit, come appunto l’aumento dell’IVA. Disattivate l’anno scorso, le clausole di salvaguardia si ripropongono nuovamente quest’anno e implicano un incremento delle imposte indirette per circa 12,5 miliardi nel 2019 e 6,6 miliardi nel 2020.
La proposta di Tria, che sta facendo infuriare i due vicepremier Salvini e Di Maio, è quindi di non disattivare queste clausole, lasciando che l’IVA aumenti gradualmente nei prossimi due anni, per utilizzare le entrate fiscali aggiuntive a parziale copertura delle nuove misure di politica economica. John Barleycorn, rintanato nel suo cantuccio minoritario e liberale, per questa volta è d’accordo con il Ministro: a costo di far infuriare associazioni di consumatori ed esercenti, aumentare l’IVA non è il male assoluto per questo Paese, a patto però che contemporaneamente si taglino drasticamente le tasse sul lavoro.
Uno spostamento del peso fiscale dalla tassazione diretta (l’IRPEF per intenderci) a quella indiretta, sarebbe una strategia sensata per diverse ragioni.
La proposta di Tria, che sta facendo infuriare i due vicepremier Salvini e Di Maio, è quindi di non disattivare queste clausole, lasciando che l’IVA aumenti gradualmente nei prossimi due anni, per utilizzare le entrate fiscali aggiuntive a parziale copertura delle nuove misure di politica economica
Guardiamo prima di tutto ai dati: rispetto al resto dei Paesi dell’Unione Europea il sistema tributario italiano risulta alquanto peculiare. Secondo il rapporto della Commissione Europea sui trend fiscali dell’Unione (con dati relativi al 2016), l’Italia ha una tassazione implicita sul consumo tra le più basse tra gli Stati membri (intorno al 18,4% rispetto a una media europea del 20,5%). Siamo però il paese che tassa maggiormente il lavoro (l’aliquota implicita sul lavoro è pari al 42,6%, contro una media europea del 36,1%). Questo significa che attualmente, rispetto al resto dell’Unione Europea, il sistema tributario favorisce in termini relativi il consumo ma penalizza il lavoro. Il che significa, in ultima analisi, penalizzare i fattori di produzione e rendere quindi il nostro sistema produttivo scarsamente competitivo.
Quello di cui avremmo invece bisogno (ce lo ricorda praticamente ogni anno il vituperato Fondo Monetario Internazionale nelle sue raccomandazioni) è una riforma fiscale orientata alla crescita. Ridurre drasticamente il peso del fisco in busta paga determinerebbe un incremento dell’occupazione e degli stipendi: una operazione che avvantaggerebbe dunque sia le imprese che i lavoratori, soprattutto donne e giovani, le categorie al momento più svantaggiate in termini occupazionali e retributivi.
Un ribilanciamento della tassazione verso il consumo realizzerebbe poi quella che viene definita dagli economisti una “svalutazione fiscale”, ovvero una svalutazione con effetti molto simili a quelli che si otterrebbero con una svalutazione monetaria (oggi ovviamente non praticabile per via della politica monetaria comune), ma realizzata mediante il sistema tributario: il calo dell’IRPEF farebbe aumentare le esportazioni, grazie alla maggiore competitività delle imprese domestiche, mentre si ridurrebbero le importazioni, per via del maggior costo dei beni importati determinato dall’IVA più alta. Il tutto non sarebbe però a somma zero: l’aumento di competitività delle aziende italiane e di conseguenza delle esportazioni creerebbe maggiori opportunità di sviluppo e di occupazione. Per stare al passo dell’accresciuta domanda internazionale, le imprese italiane si troverebbero a investire maggiormente e anche il gettito fiscale incrementerebbe. Insomma, potrebbe generarsi un circolo virtuoso di maggiore crescita e benessere economico dal quale avremmo tutti da guadagnare.
Ridurre drasticamente il peso del fisco in busta paga determinerebbe un incremento dell’occupazione e degli stipendi: una operazione che avvantaggerebbe dunque sia le imprese che i lavoratori, soprattutto donne e giovani, le categorie al momento più svantaggiate in termini occupazionali e retributivi
Infine, non va sottovalutato un aspetto di equità. Ricordiamoci che l’IRPEF colpisce soltanto i lavoratori, che vengono quindi penalizzati rispetto ad esempio a chi invece non lavora ma gode di rendite, e in particolare i lavoratori in regola, avvantaggiando quindi l’economia sommersa. Le imposte sui consumi colpiscono invece tutta la popolazione in proporzione al consumo individuale e sono inoltre più difficili da evadere. Un ribilanciamento dalla tassazione diretta a quella indiretta renderebbe quindi il fisco italiano più equo, riducendo anche i margini di evasione e disincentivando il lavoro in nero.
Se la proposta viene messa in questi termini, non si capisce perché mai i partiti “sovranisti” non dovrebbero essere d’accordo. Una svalutazione fiscale di questo tipo fu adottata anche dalla Germania a metà degli anni 2000 e gli effetti sono ancora sotto gli occhi di tutti. E anche i partiti cosiddetti di sinistra dovrebbero appoggiare una simile proposta, se lavoro ed equità sociale sono ancora i loro punti di riferimento.
Stupisce infine che questo discorso non venga appoggiato, se non dai partiti, quantomeno dagli imprenditori, che fino al mese scorso si sono ben guardati dal far sentire la loro voce e che solo dopo il cosiddetto decreto Dignità hanno cominciato a intuire i rischi della deriva economica gialloverde.
Ma forse questi ragionamenti, in questo Paese così avverso ai numeri e così poco interessato al proprio futuro, non interessano. In tanti si accontentano della dose quotidiana di slogan vuoti da campagna elettorale. La speranza è che Tria non sia uno di questi.