L’impero (americano) colpisce ancora: perché Trump vuole governare il mondo col pugno di ferro

Un tweet, l’ennesimo, contro l’Iran scatena una piccola guerra diplomatica, l’ennesima, tra Usa ed Europa. Ora però è diverso: Washington può e vuole fare a meno dei suoi alleati storici: make America great again, in fondo, vuol dire questo

Noi siamo noi e voi non siete un… Novello marchese del Grillo, Donald Trump spiega e rispiega in modo diretto e concreto che cosa significhi “America first!”. E se la lezione viaggia con un tweet, poco importa: arriva lo stesso, presto e bene. L’ultima sta nel messaggio inviato al mondo e in particolare all’Europa: “Chiunque farà affari con l’Iran non potrà più farne con gli Stati Uniti”. Un mesetto fa era stato Mike Pompeo, il segretario di Stato, a uccidere diplomaticamente le speranze degli europei, che chiedevano di essere esentati dal regime di sanzioni: «Il Presidente – aveva detto Pompeo – ha deciso di ritirarsi dall’accordo con l’Iran perché questo mette a rischio la sicurezza del popolo americano. Quindi non siamo nella posizione di fare eccezioni di sorta».

Ma quello che manda a dire Trump con i suoi cinguettii è molto di più. Quello che Trump sta dicendo è: noi siamo l’Impero, siamo noi a decidere e voi dovete adeguarvi. E i politici europei sembrano, di fronte agli attacchi americani, dei pugili un pò suonati, non ancora al tappeto ma alle corde, con i guantoni alzati per difendersi dai colpi.

Uno smarrimento evidente a livello nazionale, dalla Germania della Merkel alla Francia di Macron: corsero a Washington a chiedere la grazia, poi mandarono anche una lettera, ottennero solo la risposta di Pompeo. E non meno disperante a livello comunitario. Federica Mogherini, alto rappresentante dell’Unione Europea per la politica estera e di sicurezza, ha risposto all’ultimo tweet trumpiano ribadendo che la Ue, al contrario degli Usa, è convinta che l’Iran stia rispettando gli obblighi del trattato firmato nel 2015 e che, dunque, l’Unione non solo non possa sposare l’embargo ma debba incoraggiare le proprie aziende a incrementare le relazioni commerciali con l’Iran.

Sembra, l’atteggiamento europeo, la risposta del tizio pieno di lividi che pure si vantava: ne ho prese ma gliene ho dette! Le grandi aziende europee, per esempio Total e Peugeot, già fanno i bagagli e ciao ciao all’Iran. Poi è chiaro che le sanzioni (pochi giorni fa varate quelle contro l‘industria dell’auto e il settore minerario, a novembre quelle contro l’export di petrolio e le transazioni bancarie) colpiranno duro ma non piegheranno un Paese come l’Iran, che dal 1979 vive in regime di embargo e avrà comunque il sostegno economico di Russia e Cina. Saranno invece l’occasione perfetta per mettere in riga l’Europa, che nel 2016 ha esportato in Iran merci per 11 miliardi di euro e ne ha importate (soprattutto petrolio) per altrettanti, e contava di incrementare moltissimo.

Infine, una divergenza così radicale su una questione così spinosa, che potrebbe anche portare a una nuova guerra militare in Medio Oriente e a una guerra commerciale tra le due rive dell’Atlantico, imporrebbe alla Ue di trarre delle conclusioni politiche. Di chiedersi se gli Usa, oltre che amici, siano ancora nostri alleati. E imporrebbe altresì di darsi una politica estera vera e comune. Ragionamenti che l’Europa non può permettersi: non ne ha la forza né la capacità, e in più è gravata dalla zavorra di una serie di Paesi che prendono gli ordini a Washington e i soldi a Bruxelles. D’altra parte questa è la stessa Europa che nel 2008 si fece mettere in casa (Polonia e Romania) il sistema missilistico anti-Russia prendendo per buone le ridicole argomentazioni Usa-Nato, e cioè che servisse a difenderci dai missili dell’Iran. Quindi, che cosa possiamo pretendere?

L’impero ha cercato, anzi, ha costruito con tenacia questa crisi con l’Iran. Con la stessa tenacia, cioè, con cui ha costruito tutte le altre crisi che, in realtà, sono mattoni della nuova politica estera di Washington: gli Usa sono gli Usa e voi… La rinuncia ai trattati commerciali internazionali, dal Nafta (con Messico e Canada) al TPP (con dodici Paesi dell’area pacifica e asiatica) al TTIP (con l’Unione Europa). La guerra dei dazi con la Cina. La questione di “Gerusalemme capitale” che, ancor più che i palestinesi, che ai buon i propositi di Israele ovviamente non credono, mortifica l’intera comunità internazionale, che da decenni definisce “territorio occupato” la parte Est della città. L’ambizione dichiarata a ridisegnare per la milionesima volta il Medio Oriente a immagine e somiglianza dell’interesse americano. Le sgridate al G7, disconosciuto nelle sue conclusioni. Le bastonate alla timida e ricca Europa, esortata a consegnarsi alla Nato guidata dagli Usa e a pagarne pure le spese, proprio come il Messico dovrebbe pagare per il muro Usa alla sua frontiera. E l’ipotesi di dialogo diretto con la Russia di Vladimir Putin, tanto per ribadire il ruolo subalterno dell’Europa rispetto alle cose dei “grandi”.

Il mondo, ma soprattutto l’Europa, che dalla fine della seconda guerra mondiale si culla nell’idea della relazione particolare con gli Usa, segue piuttosto attonito un progetto che, con evidenza, punta a ridurre ogni altro Paese al ruolo di vassallo. Nel frattempo, la strategia dell’Impero produce conseguenze. La prima è che ora tutti assaggiano la straordinaria potenza di un Paese come gli Usa, che spende per la Difesa più di quanto spendano gli altri dieci Paesi che lo seguono in graduatoria messi insieme

È l’Impero che avanza e non guarda in faccia nessuno. Le alleanze tradizionali, se non rispondono al dogma di “America first!”, possono essere tranquillamente archiviate. Donald Trump sembra tormentato da una domanda: a che mi serve essere così potente se poi devo dar retta a questo e a quello?

Il mondo, ma soprattutto l’Europa, che dalla fine della seconda guerra mondiale si culla nell’idea della relazione particolare con gli Usa, segue piuttosto attonito un progetto che, con evidenza, punta a ridurre ogni altro Paese al ruolo di vassallo. Nel frattempo, la strategia dell’Impero produce conseguenze. La prima è che ora tutti assaggiano la straordinaria potenza di un Paese come gli Usa, che spende per la Difesa più di quanto spendano gli altri dieci Paesi che lo seguono in graduatoria messi insieme, che nei soli servizi di intelligence investe più di quanto investa la Russia per l’intera Difesa, che ha il record mondiale dei nuovi brevetti, dei miliardari, delle migliori università, dei premi Nobel, degli studenti stranieri, dei soldati di stanza all’estero. È una lezione durissima, ancor più severa per gli “amici” di ieri che per i “nemici” (Russia, Cina, Cuba, Iran…) di sempre. Quelli che all’apparire di Trump coprivano la Casa Bianca di ironie ora osservano intimiditi.

La seconda conseguenza è che il trumpismo già si delinea come un fenomeno tutt’altro che transitorio. Che detti in prima persona la linea (frenato dalle residue opposizioni democratiche e repubblicane che gli hanno buttato tra i piedi il Russiagate) o che, come pare più probabile, sia solo il frontman di una canzone scritta da altri, Donald Trump non è un accidente della storia. Al contrario, è il prodotto di una storia, quella recente, che ha sofferto i contraccolpi inattesi della globalizzazione. È brutto dirlo ma ripetere come un mantra che tot centinaia di milioni di persone sono uscite dalla povertà grazie alla globalizzazione serve a pochissimo, se poi tot decine di milioni di persone, sempre per la globalizzazione, sono entrate nella povertà nei Paesi dove davvero si decidono le sorti del mondo.

Il trumpismo è il figlio legittimo di questo fenomeno, come l’ha vissuto il Paese più potente del pianeta. I molti che, fuori dagli Usa, lo detestano ora sperano che le elezioni di medio termine, che a novembre dovranno rinnovare l’intera Camera dei Rappresentanti e un terzo del Senato, restituiscano la maggioranza del Congresso ai democratici e trasformino Trump nella classica “anatra zoppa”. Succede però che l’economia Usa corra come un treno, il gradimento di Trump salga e il suo elettorato si rafforzi. Ce la faranno i democratici a sventare la consacrazione del nuovo ordine imperiale trumpiano?

Forse sì, perché il voto locale è sempre diverso da quello presidenziale. E forse no. Ma chi ci dice che, una volta praticata senza tante remore l’ebbrezza di “America first!” e verificato che può funzionare, l’Impero faccia marcia indietro? E se ci aspettasse solo un trumpismo senza Trump?

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