Non solo Genova, le infrastrutture italiane sono un disastro (e la sicurezza è un miraggio)

Il comparto autostrade aumenta traffico, utili e incassi. Gli unici segni meno? Investimenti e manutenzione. Eppure, nessuno degli ultimi governi ha spinto a spendere di più per migliorare lo stato le nostre infrastrutture

FEDERICO SCOPPA / AFP

Questa orribile estate dei disastri – prima l’esplosione di Bologna, poi il crollo di Genova – non è solo figlia dell’ordinaria distrazione del nostro Paese riguardo alla cura delle infrastrutture e del territorio, non è solo un prevedibile accidente, e non merita le solite recriminazioni generiche sulla necessità di prevenire, con il consueto “faremo”, “cambieremo”, “garantiremo” che la politica pronuncia in queste occasioni. Questo cosiddetto Ponte di Brooklyn, o Ponte Morandi, o Viadotto Polcevera come si chiama per l’anagrafe autostradale, non è solo un atto di arroganza ingegneristica ereditato dagli anni ’60 – tiranti in calcestruzzo anziché in acciaio, profilo avvenieristico e struttura anelastica – e mai sostituito per disinteresse e pigrizia. Questo senso di insicurezza che ci coglie – «potrebbe succedere anche a me» – perchè domani o dopo ci metteremo anche noi in autostrada, non merita di essere archiviato come emozione irrazionale del momento perché sì, è vero, poteva succedere a chiunque fosse passato da lì: uno qualsiasi dei quarantamila veicoli che in media percorrono ogni giorno la A10 o del numero assai maggiore che attraversa altre strutture a rischio.

Questo anno nero delle nostre autostrade ha un legame diretto con le scelte (o le non-scelte) di gestione di due comparti, infrastrutture e trasporti, e una volta tanto la crisi non c’entra. Entrambi i settori godono buona salute e fanno profitto. Tutti e due sono sottoposti a una complessa filiera di controlli pubblici. Insomma: in teoria potrebbero costituire tutt’ora un dato di orgoglio nazionale (la rete dei grandi collegamenti veloci, in fondo, l’hanno pagata con le tasse i nostri nonni) e non un motivo di preoccupazione e talvolta di lutto.

Riguardo alle autostrade, l’ultima relazione annuale pubblicata sul sito del Ministero delle Infrastrutture mette in fila una serie di “più” molto significativi: più utile, più traffico, più incassi dai pedaggi e dalle aree di servizio. Ci sono solo due segni meno: investimenti (meno 20 per cento) e spesa per manutenzione (meno 7 per cento). Un buon punto di partenza per valutare la dolorosa vicenda del ponte Morandi potrebbe essere questo: siamo un Paese che di recente ha fatto una legge per obbligare tre o quattrocentomila automobilisti italiani a montare seggiolini anti-abbandono per neonati, in nome della sicurezza, ma a nessuno degli ultimi cinque governi, mentre si susseguivano allarmanti segnalazioni sulle condizioni delle grandi infrastrutture degli anni ’60 e ’70, ha ritenuto di dover agire per indurre le 24 società che hanno in gestione i 5.886 chilometri di autostrade italiane a spendere di più per prevenire disastri.

Riguardo alle autostrade, l’ultima relazione annuale pubblicata sul sito del Ministero delle Infrastrutture mette in fila una serie di “più” molto significativi: più utile, più traffico, più incassi dai pedaggi e dalle aree di servizio. Ci sono solo due segni meno: investimenti (meno 20 per cento) e spesa per manutenzione (meno 7 per cento)

Anche il comparto trasporti procede col vento in poppa e fatturato in crescita (più 4,9 per cento nel traffico nazionale su gomma). Viaggiano più merci e più camion, e i camion sono più grossi: l’Italia ha registrato nel 2017 un aumento del 6,4 per cento delle immatricolazioni degli autoarticolati oltre le 16 tonnellate e un decremento del 3,5 per cento dei veicoli più leggeri. Non serve un esperto per capire che anche qui la reddività ha il suo peso: far viaggiare il doppio delle merci con un solo mezzo, un solo autista, un solo ticket autostradale, è più conveniente che spostarne due o tre. E infatti gli operatori sono soddisfatti ed esibiscono i risultati di bilancio con esultanza. Ma è abbastanza ovvio l’effetto su infrastrutture costruite in un’altra epoca, per altri carichi, altri pesi, e ci si chiede se certe tendenze non andrebbero scoraggiate anziché subite con assoluta indifferenza.

In questa orribile estate dei disastri, insomma, la riflessione obbligatoria riguarda il corto circuito tra interesse privato e interesse generale, lo stesso che verifichiamo ogni volta che un terremoto abbatte una scuola appena ristrutturata, ogni volta che un’alluvione spazza via un quartiere costruito sopra gli scarichi pluviali, ogni volta che fatti connessi a errori di progettazione o gestione provocano vittime innocenti. Aspettiamo da un ventennio che la parola sicurezza venga estesa, così come accade in tutta Europa, dall’ambito ristretto dell’ordine pubblico a quello più largo del vivere associato, e magari questo Governo del Cambiamento potrebbe partire da qui, con i provvedimenti emergenziali che la situazione richiede: le immagini che la tv trasmette da ventiquattr’ore di piloni slabbrati, calcestruzzi attraversati da fiotti d’acqua, armature consunte dalla ruggine, riprese sulle strade di tutta Italia dimostrano che l’emergenza esiste, è concreta, non può più essere negata, e ci spaventa.

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