Non solo Torri Gemelle: ecco perché non possiamo fare ameno di guardare l’orrore

La civiltà di oggi è basata su un desiderio omnicomprensivo di vedere. Vogliamo vedere tutto, specialmente, l'osceno e la mostruosità. Mark Cousin, in ”Storia dello sguardo” racconta i cambiamenti della nostra percezione visiva lungo la storia

Che aspetto aveva il mondo visto da uno dei primi Homo sapiens? Com’era il cielo che Galileo scrutava col suo telescopio? Che cosa videro gli astronauti dell’Apollo 8 quando entrarono nel campo gravitazionale della Luna? Perché siamo stregati dal sorriso enigmatico di Monna Lisa?

Con Storia dello sguardo Mark Cousins compie un vero e proprio montaggio dei momenti più significativi della nostra storia visiva e ci racconta come e perché sia cambiato il nostro modo di guardare nel corso dei secoli. Assistiamo così allo spettacolo della grande eruzione del Vesuvio del 79; insieme a Newton vediamo cadere la fatidica mela che lo porta a formulare la legge di gravitazione universale; penetriamo l’espressione carica di sofferenza di uno schiavo africano incatenato su una nave diretta in Brasile; ipotizziamo l’occhiata di rimprovero lanciata a Cézanne dalla moglie durante un’estenuante seduta di posa; siamo accanto a Howard Carter quando, nel 1922, scopre la tomba di Tutankhamon. Dal Pleistocene all’era digitale, il modo in cui costruiamo le immagini e quello in cui recepiamo l’oggetto della visione è radicalmente mutato: ed esplorare l’evoluzione del processo visivo equivale a ripercorrere la storia dell’uomo.

Album di fotografie e galleria d’arte, road movie e grammatica del linguaggio visuale: Storia dello sguardo è un emozionante viaggio per parole e immagini che attraversa l’arte e la letteratura, il cinema e la fotografia, la tecnologia e la scienza. Un percorso alla fine del quale non potremo più guardare il mondo con gli stessi occhi.

Mark Cousins è uno scrittore, critico cinematografico e regista irlandese. Il suo documentario The Story of Film: An Odyssey, trasmesso in Italia da Sky, è stato presentato al Toronto International Film Festival nel 2011. Nel 2018 il suo nuovo film, The Eyes of Orson Welles, è stato proiettato al Festival di Cannes.

Tratto da Storia dello sguardo, di Mark Cousins

Se lo sguardo scientifico e illuminista aveva principalmente a che fare con la curiosità di scoprire cose nuove riguardanti il mondo materiale, la ri esamina hollywoodiana degli anni settanta ci rammentava tipologie di sguardo più compulsivo. All’inizio della nostra storia ci siamo occupati dell’insorgere del desiderio sessuale negli adolescenti e del modo in cui
lo sguardo rivolto ai corpi e ai genitali fosse irresistibile e spesso affiancato da un senso di paura. La gente che si ammassava nell’obitorio di Parigi era spinta da un simile istinto compulsivo. «Morguer» in francese significa fissare con tracotanza. A Hollywood quel genere di compulsione assunse il nome di «want see».

La «volontà di vedere» si riduce così a due sole parole di due sillabe: brutale ma piuttosto efficace. Ciò portò chi faceva parte dell’industria cinematografica a riflettere: bisognava fare appello diretto alle istanze della nostra psiche, focalizzarsi esclusivamente su di esse. Questa immagine, proveniente dal film Lo squalo di Steven Spielberg, ha bisogno di ben poche presentazioni.

Prima di questo film la fortuna di Hollywood era in declino, ma dopo di esso e dopo la rappresentazione del demonio nell’Esorcista, l’era dei blockbuster ebbe inizio e gli spettatori presero a fare la fila attorno all’isolato per entrare al cinema. L’idea alla base della volontà di vedere è che essa non fornisce nuove informazioni su qualcosa di mai immaginato prima. Si tratta invece di una conferma (spesso orribile) di ciò che da lungotempo già si immaginava.

Quando nuotiamo in mare, nei recessi della nostra mente, ci chiediamo se negli abissi sotto dinoi ci sia qualcosa, un qualche feroce colosso, potente quanto le onde del mare e pronto ad aggredirci. Lo squalo non fece altro che mettere in scena proprio questo, assieme ai resti umani di chi è stato divorato da quel gigante del mare. Per chiarire meglio come i blockbuster hollywoodiani non abbiano inventato dal nulla questo genere di pulsioni, nell’immagine a pagina successiva vediamo Watson e lo squalo di John Singleton Copley, una pre figurazione della Zattera della Medusa datata 1778, vale a dire quasi esattamente due secoli prima che uscisse Lo squalo.

Il pescecane è nella stessa posizione di quello che vediamo nel fermo immagine preso dal film, sbuca dalle onde in maniera analoga. Per quanto riguarda la disposizione delle figure, l’uomo nudo del dipinto e l’attore nel film si trovano sullo stesso piano e sono raffigurati in scala simile in relazione allo squalo. Sono fuori bordo. Stuzzicano la bestia.

Un’immagine da un altro film di Spielberg ci fornisce un’idea più chiara di cosa sia il «want see». In Jurassic Park l’attrice Laura Dern ha appena visto un dinosauro. È talmente sconvolta da spalancare la bocca e sgranare gli occhi. Il volto diventa più grande, più simile a una luna che riflette la luce del sole. È come se avesse appena visto Godzilla, una bomba atomica oppure ancora Lenin, Oum Kalthoum, la doppia elica del dna o Buchenwald. Il «want
see» è la reazione all’occhio scisso del xx secolo, il suo corrispettivo neanche
troppo oggettivo.

Mette in dubbio l’idea borghese che gli esseri umani siano civilizzati e in perenne miglioramento. Spiega il perché del rallentare del traffico in prossimità di un incidente stradale. Entra in gioco quando la realtà comincia a diventare meno reale. Come memento mori, scaglia del materiale psichico contro il nostro ego sociale ed evoluto. Più vicino a Thanatos che a Eros, dimostra che la coscienza è affascinata dalla sua stessa fine.

Affermare tutto questo implica l’evocazione delle due immagini in coda a questo capitolo, entrambe provenienti dalla nazione in cui il «want see» ha avuto origine, l’America. Lo squalo, L’esorcista e Jurassic Park erano prodotti d’intrattenimento, opere giocose e d’evasione, su vari livelli, ma il «want see» è un’etichetta precisa e al contempo inquietante che si adatta bene anche a traumi più reali che ebbero luogo in decenni recenti.

Prendiamo, per esempio, questo fotogramma a lungo soppresso dal famoso filmato dell’assassinio del presidente americano John F. Kennedy girato da Zapruder. Le immagini furono ampiamente diffuse a seguito della sparatoria che ebbe luogo il 22 novembre 1963 e in seguito il filmato divenne un feticcio, ma questo fotogramma fu considerato troppo traumatico. L’impatto del proiettile produsse un effetto simile al lancio di una qualche polvere arancione o di un pallone che esplode. Era scioccante, perché in realtà si trattava dell’esplosione di parte della testa del presidente. Una sezione del suo cervello, sede della sua coscienza, qualcosa che prima di allora non aveva mai visto la luce del giorno, e che, essendo il presidente un simbolo importantissimo per la nazione, era anche un metonimo della coscienza americana, d’improvviso e nel modo più violento che si potesse mai immaginare si trovava sotto i raggi del sole. Un’illuminazione orripilante. Una grossa parte della discussione su ciò che accadde quel giorno negli Stati Uniti ha delle caratteristiche assimilabili al mito. I commentatori affermarono che si trattava della fine di «Camelot», che quell’era fatta di idealizzazione giungeva al termine.

Il filmato di Zapruder presentava immagini scioccanti e incontrovertibili che presero d’assalto la cittadella, l’immagine che l’America progressista aveva costruito di sé. Capovolgeva il madrigale e imponeva un dietrofront ai bevitori d’idromele. Le bocche si spalan carono. Vedere il fermo immagine o il video al rallentatore equivaleva a imbattersi in un Tyrannosaurus Rex o in Godzilla, dava prova che la coscienza non è altro che qualche chilo di carne. Si tratta della resa dei conti definitiva. Per tutto l’intrattenimento, le lusinghe, i reality televisivi, la pubblicità mendace, i persuasori occulti e le omissioni politiche, il xx secolo fu la resa dei conti. Comportò tutta una serie di traumi visivi che, com’era accaduto con i surrealisti e i dadaisti, mostrava l’essenza della vita generando una detonazione della sua superficie.

Il più conosciuto tra questi traumi risale a poco dopo il volgere del secolo. Per più di quindici anni ha nutrito la curiositas. Come vediamo nella foto, si trattava di qualcosa di duro e morbido allo stesso tempo. Riccioli di nuvole superbamente illuminate, simili a quelle che, cariche di cherubini, nei dipinti barocchi innalzano la Vergine Maria nell’alto dei cieli, scaturiscono da qualcosa di rigido, lineare e monumentale, un mondo reticolare. Quel mondo ha un che di zen, nella sua semplicità grafica. In natura non esiste nulla di così perfettamente diritto; e quasi per compensare quell’adorabile ordine, il cavolfiore di nuvole sconfina come fosse lichene.

Che piacevole contrasto visivo. Che armonia formale. Ed è un vero peccato, allora, che stiamo in realtà guardando il costituirsi di una fossa comune. Un vero peccato che in quel lichene si celino membra umane e una miriade di frammenti di uffici, macchine del caffè, borse e pranzi al sacco. Ancora una volta la televisione si è ritrovata ad allestire un bel banchetto d’immagini che furono mandate in onda dal vivo, poi replicate in onda ancora e ancora, come se la loro ripetizione potesse tornare utile a esorcizzare l’incredulità collettiva. Ma la reiterazione mediatica non impedisce la reiterazione mentale, così dell’11 settembre si parlò in termini quasi estetici.

L’allora presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, disse: «queste azioni fanno a pezzi il metallo, ma non possono intaccare la ferrea determinazione americana» (una metafora ricorrente per una nazione che aveva ridotto all’osso la produzione di acciaio). Far schiantare due aerei sul World Trade Center era stato un modo efficace di lasciare gli americani a bocca aperta. Le persone ai piani alti avevano continuato ad ascoltare il madrigale e a bere il loro sidro, dimentichi dell’umiliazione subita dal Medio Oriente e della sofisticata cultura di una delle più importanti religioni al mondo, l’Islam. Ma non più. L’11 settembre gli attentatori, dal cui assalto hanno preso le distanze quasi tutti i musulmani, castrarono gli Stati Uniti. In televisione. Sotto gli occhi di tutto il mondo. Se non è umiliazione questa.

L’ironia di cui spesso si fa menzione sta nel fatto che Hollywood aveva regolarmente messo in scena la distruzione di grandi città e edifici. La tecnologia cgi aveva dato modo ai cineasti di immaginare in modo iperrealistico questo genere di disordini. Gli edifici sviluppati in altezza, a un certo punto, crolleranno. L’energia potenziale a un certo punto si convertirà in energia cinetica. L’entropia troverà il modo di emergere e così, quando Lous Sullivan prese a immaginare ed erigere svettanti edifici, gradevoli allo sguardo, la loro caduta divenne qualcosa di atteso e che si desiderava vedere. Più gli edifici erano eleganti, più sfidavano la gravità, e più se ne prevedeva la fine rovinosa. Se si prova a tenere un uovo in pugno, al percepirne la fragilità e la perfezione si sente quasi il desiderio di spaccarlo. Hollywoode il xx secolo si nutrivano del desiderio di fare a pezzi, di avere sotto gli occhi la distruzione di qualcosa di irrealizzabile.

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