Come è cambiata l’università italiana negli ultimi dieci anni? Secondo Gianfranco Viesti, professore di Economia applicata presso l’Università di Bari, il quadro non è affatto rassicurante, tanto che il suo ultimo libro, pubblicato con Laterza, ha un titolo eloquente: La Laurea Negata.
Professor Viesti, che significa?
La base di questo lavoro è un rapporto della Fondazione Red pubblicato due anni fa. I dati sono chiari: l’università italiana è più piccola del 20% rispetto a dieci anni fa. E non è una buona notizia.
In che senso è “più piccola”?
Il blocco del turnover ha ridotto il numero dei docenti da 63mila a 49mila tra il 2008 e il 2016, ma ci sono anche meno corsi e meno studenti, al contrario di quanto si possa pensare.
Eppure in periodo di crisi occupazionale si dice che l’Università diventi un parcheggio per i giovani.
È una teoria che girava già negli anni Settanta, ma che in questo momento storico non vale. Per una semplice ragione: i costi dei nostri atenei sono aumentati e sempre più persone non se lo possono permettere.
Andiamo con ordine. Dal punto di vista politico l’Italia ha seguito un indirizzo coerente nei confronti dell’Università?
Sì, indipendentemente dal colore dei governi, possiamo dire che la linea è stata piuttosto univoca. Il costante taglio dei fondi ha portato l’Università pubblica a dipendere per il 30% da finanziamenti privati, con una pericolosa concentrazione degli atenei sbilanciata verso il Centro-Nord.
I criteri di ripartizione dei fondi statali sono stati cambiati, ma sono ancora troppo poco trasparenti
A farne le spese sono stati gli studenti.
Soprattutto i meno abbienti, visto che gli investimenti per il diritto allo studio sono rimasti gli stessi mentre i costi aumentavano. E non è solo un problema di tasse, ma anche di tutte le altre spese che uno studente, magari fuori sede, deve sostenere. In questo modo non si fa che aumentare le diseguaglianze sociali e lasciare indietro intere fasce economiche e geografiche. Ma oltre al merito, c’è un problema di metodo.Cioè?
In questi ultimi dieci anni la politica ha trasformato l’Università senza che gran parte dell’opinione pubblica se ne rendesse neanche conto, attraverso modifiche burocratiche molto tecniche e graduali, quasi per evitare responsabilità. Un tema del genere meriterebbe invece di essere al centro del dibattito parlamentare.C’è un modo corretto per investire nella formazione universitaria?
A parte la necessità di aumentare gli investimenti, un cambiamento opportuno c’è già stato, perché i fondi non vengono più ripartiti agli atenei su base storica, cioè su quanto erano abituati a prendere in precedenza, ma su un sistema di indicatori. Il problema è che questi criteri sono poco trasparenti e, se vogliamo vedere dei benefici, devono essere riformati. Altrimenti resterà la sensazione che il meccanismo sia ancora influenzato dalla volontà di finanziare questo o quell’ateneo.Spesso si dice che non c’è una buona corrispondenza tra quello che studiano i nostri giovani e le richieste del mercato del lavoro.
Io contesto il pensiero secondo cui si debba investire di più sulle “mode del momento”. L’università deve servire prima di tutto a fornire informazioni e capacità in grado di resistere nei decenni. Poi è ovvio che questo vada mediato con la possibilità di una immediata spendibilità della laurea, ma senza per questo rinunciare a alcune facoltà.