Le accurate inchieste pubblicate negli ultimi tre giorni dai principali quotidiani italiani raccontano un Paese con 17 grandi viadotti ad alto rischio (la Stampa); trecento fra gallerie e ponti con criticità manifeste (Repubblica); il 60 per cento dei cavalcavia, autostradali e non, da sostituire o ristrutturare (Corriere). È un racconto che spaventa, e al tempo stesso potrebbe costituire un’opportunità per la politica che da tempo sta cercando vie per riabilitarsi, visto che è chiaro a tutti – o dovrebbe esserlo – che solo uno sforzo condiviso di portata nazionale potrà tirarci fuori da una situazione di degrado e pericolo materiale ormai diventata emergenza, dove il rimpallo di responsabilità è problema da lasciare all’analisi degli storici e dei politologi per occuparsi piuttosto di come provvedere, e in fretta.
In precedenti emergenze determinate dal caso e dalla natura piuttosto che da responsabilità umane, vedi il terremoto dell’Aquila e quello più recente di Amatrice, i partiti hanno saputo mettere da parte le posizioni pregiudiziali e il consueto narcisismo dei leader: persino l’ultimo decreto terremoto è stato approvato senza voti contrari, visto che l’opposizione si è resa conto che su una vicenda così, su una tragedia così, l’ordinario gioco delle parti andava sospeso in nome di un più alto senso di responsabilità. Ma per Genova e per tutto ciò che ne è seguito abbiamo assistito a uno spettacolo diametralmente opposto, e forse per la prima volta una palese ed enorme emergenza nazionale è stata utilizzata per i consueti e piuttosto miserabili scopi di propaganda, talvolta ai limiti dello sciacallaggio: lo hanno fatto entrambe le parti, senza nemmeno immaginare che fosse il momento di mettersi a disposizione del Paese anziché degli umori dei rispettivi supporter, con una superficialità che spaventa perché in questo modo i dieci ponti crollati negli ultimi cinque anni potranno diventare venti, o forse anche cento, prima che qualcuno riesca a mettere mano a un progetto complessivo per le infrastrutture.
La sensazione è che il conflitto politico, inseguendo gli umori delle curve, stia oltrepassando il limite oltre il quale la competizione per il consenso diventa autolesionismo nazionale
È propaganda l’annuncio governativo sulla rescissione della concessione ad Autostrade, che infatti è stato ritrattato nell’arco di ventiquattr’ore. È propaganda il riferimento ossessivo ai rischi noti e denunciati del Ponte Morandi: chiunque avesse avuto così chiari quei pericoli avrebbe avuto il dovere morale e politico di fare blocchi stradali sulle rampe di accesso anziché ordinarie interrogazioni a risposta scritta. È propaganda l’ossessivo riferimento dell’opposizione all’ostilità M5S per il progetto alternativo della Gronda, e a quella frasetta su un vecchio blog – «il ponte può reggere cento anni» – che non significa niente, è solo una battuta stupida alla quale non si può impiccare nessuno (e certo il progetto della Gronda non è stato bloccato da quelle sei parole).
La sensazione è che il conflitto politico, inseguendo gli umori delle curve, stia oltrepassando il limite oltre il quale la competizione per il consenso diventa autolesionismo nazionale, con alti rischi anche per i protagonisti del duello. C’è una larga parte del Paese – ed è la parte elettoralmente più attiva, quelli fra i cinquanta e i sessant’anni – che ha memoria di come si gestiscono le grandi emergenze nazionali perché le ha vissute, o ne ha una esperienza abbastanza diretta: dalla ricostruzione post-bellica al terrorismo, dai Piani Casa degli anni ’50 e ’60 alle leggi eccezionali contro le organizzazioni eversive, culture politiche agli antipodi hanno saputo trovare punti di convergenza in nome dell’interesse comune.
Era quel che ci si sarebbe aspettati anche adesso. Un appello del governo a tutte le forze politiche per gestire una situazione al collasso, riconoscendo nel crollo del Ponte Morandi un segnale che richiedeva atti straordinari. Un generoso atto di disponibilità delle opposizioni per un piano nazionale che in dieci, vent’anni, rimetta in linea le nostre infrastrutture. Un fronte unico da esibire anche in Europa, per chiedere ciò che serve – la flessibilità indispensabile a un colossale investimento di questo tipo – e per dimostrarsi diversi dalla “solita Italietta”. Magari si è ancora in tempo, ma il pessimismo è obbligatorio. Sembra che nessuno ne abbia l’intenzione, anzi si procede in direzione ostinata e contraria, badando più ai sondaggi che alle crepe che si aprono nel cemento e nel Paese.