Tempesta in arrivo: ecco perché nessuno si fida più del debito pubblico italiano

Nessun grande burattinaio: se la nostra credibilità sta precipitando la colpa è dell’incertezza che comunichiamo. Se non si sa chi comanda e cosa vuole, com’è possibile che qualcuno compri i nostri Btp? Prima lo capiamo, meglio è

Matteo Salvini e i suoi strateghi hanno trovato il grande alibi: gli speculatori sono in agguato, magari alimentati da autorevoli commentatori (allusione ad economisti come Alesina, Giavazzi, Cottarelli, Galli, Bini Smaghi e coloro i quali hanno sollevato grossi dubbi sulla strategia del governo). Lo spread sarebbe colpa loro (dei commentatori e degli speculatori), intanto s’insinua una linea di difesa ancor più maligna (oltre che autodistruttiva): cioè che la forbice tra Btp decennali e Bund tedeschi s’allarga perché la Banca centrale europea ha già cominciato a comprare meno titoli di stato, in particolare italiani. L’accusa è arrivata al punto da richiedere una precisazione della stessa Bce: è vero che il Qe è stato già dimezzato (da 60 a 30 miliardi al mese) in vista della sua conclusione a fine anno (da ottobre solo 15 miliardi poi stop a dicembre), ma la quota di titoli di stato italiani rispetto a quella degli altri paesi della zona euro è rimasta del tutto invariata.

Quando la Bce comprava 80 miliardi di euro al mese, gli acquisti sui titoli di Stato italiani orbitavano attorno ai 10 miliardi al mese. Questo importo mensile è sceso a 3 miliardi circa (3,2 miliardi lo scorso aprile) con gli attuali acquisti mensili da 30 miliardi. Nell’ultimo trimestre di quest’anno, si dimezzerà ancora. Quest’anno l’Italia emetterà 240 miliardi di titoli di Stato (esclusi i BoT): le emissioni nette sono pari a 57 miliardi (al netto dei rimborsi dei titoli in scadenza), e gli acquisti netti da parte della Bce sono stimati a quota 29 miliardi ai quali si sommano 17 miliardi per il reinvestimento dei titoli di Stato italiani in scadenza detenuti dall’Eurosistema, prevalentemente attraverso la Banca d’Italia.

Una smentita è una notizia data due volte, si diceva già nel cinico mondo dei giornali, figuriamoci quanto se ne preoccupano i troll. Il grande nemico non sarebbe solo George Soros, ma niente meno che Mario Draghi. Che il presidente della Bce non sia amato nel cerchio gialloverde è noto, che Paolo Savona sia un suo critico d’antan è palese e il professore non lo ha mai nascosto, ma Matteo Salvini in una delle interviste, a colonne di giornale unificate, rilasciate nel week end, ha ribadito che «l’euro non è irreversibile, al contrario di quel che dice Draghi». Certo è che posizioni del genere rimettono in discussione gli impegni solenni presi da Giuseppe Conte e da Giovanni Tria, cioè dal capo del governo e dal ministro dell’economia.

La propaganda è costruita sugli alibi, che sono false notizie consolatorie; la prima cosa, dunque, è vedere se la spectre pluto-giudaico-massonica è all’attacco. Lo spread è arrivato a 260 punti base (2,6%) peggio dell’estate 2011 quando Mario Draghi firmò insieme a Jean Claude Trichet (allora presidente) la lettera di raccomandazioni per Silvio Berlusconi. Chi vende titoli di stato? Le banche italiane ne sono piene e, nel momento in cui diventano rischiosi, come dimostra l’impennata dei Btp, debbono ridurne il peso. Quanto a quelle straniere, si stanno cautelando. Nella City di Londra, ha scritto il Sole 24 Ore, considerano il Btp praticamente illiquido. È un mercato da 1.500 miliardi, ma dal 29 maggio scorso, quando i Btp decennali crebbero di tre punti, «non è più possibile fare uno scambio di una consistenza anche modesta, devi spacchettarlo e poi hai problemi anche a ricoprirti la posizione, rischi di trovarti ingabbiato da un momento all’altro senza nemmeno accorgertene».

All’allarme degli operatori sul mercato del debito sovrano si aggiunge quello dei gestori di fondi d’investimento i quali registrano una riduzione netta della raccolta (quasi 50 miliardi in sei mesi, mezzo miliardo in meno nel solo giugno). E qui si tratta per lo più di risparmiatori piccoli e medi, non di gnomi della finanza. Un altro segnale è il Target2, il sistema di pagamento gestito dalla Bce, che mostra un trasferimento di 60 miliardi dalle banche italiane a quelle di altri paesi della zona euro. Senza contare quelli che sono andati fuori dall’euro, tra i quali i risparmi del neo senatore Claudio Borghi Aquilini, economista caro a Salvini, il quale ha investito 400 mila euro all’estero perché non si fida dell’Italia nell’euro.

Come si vede, la faccenda è molto più complicata. Nemmeno nel 1992, quando davvero Soros scommise alla grande contro le due lire, quella britannica e quella italiana, il sistema monetario europeo collassò per colpa della speculazione. Lo stesso Soros ha ricordato di essersi basato sulla Bundesbank la quale rifiutava di sostenere le due valute, in particolare la lira italiana. Anche allora era in gioco non una formula né un algoritmo, ma una parola, fiducia, basata non solo su pulsioni psicologiche, bensì su un’analisi concreta della situazione concreta. Anche allora, come nel 2011 e come oggi, non c’erano i presupposti per la tenuta degli equilibri monetari e finanziari.

Il primo ingrediente della fiducia è la capacità di una economia di rispettare i patti stretti con altri soggetti economici. Ogni scambio implica un contratto, ciò vale anche per la moneta che non si può stampare con la cornucopia perché il suo ammontare rispecchia sostanzialmente la taglia e l’andamento economico di un paese. Per non parlare di un titolo di debito come il buono del tesoro. Sulla fiducia si basano anche le agenzie di rating quando danno alla Francia due A e all’Italia tre B. Con un voto così basso l’Italia dovrà nuotare nell’oceano della finanza senza più il salvagente della Bce.

Lo spread non è una finzione, è un prezzo che, come tutti gli altri, si definisce in base alla domanda e all’offerta. La legge aurea dello scambio riguarda anche i soggetti privati, a cominciare dalle banche per arrivare alle imprese che emettono a loro volta obbligazioni per rifornirsi di denaro sul mercato, non solo italiano, troppo piccolo e rachitico, ma per lo più internazionale. Non a caso, la minicrisi di maggio ha colpito duramente le banche e le assicurazioni che continuano a soffrire: il rialzo dello spread ha inciso per circa tre miliardi di euro sul settore. Altro che speculazione, qui sono in ballo i fondamentali.

Il tasso di crescita del prodotto lordo italiano è in discesa, dall’1,5% previsto all’1,1% o forse all’un per cento per fine anno. Dunque, la torta si restringe. Il nuovo governo vuole dividerla in modo diverso nelle proporzioni e maggiore in quantità rispetto al governo precedente, distribuendo una parte ai disoccupati sotto il titolo reddito di cittadinanza e un’altra alle partite Iva e alle famiglie attraverso la riduzione dell’imposta sui redditi (la cosiddetta flat tax). La prima domanda che si pone chi compra titoli italiani, è da dove provengono le risorse, visto che il Pil rallenta. Badate bene, qui non c’entra il rispetto dei parametri, stiamo parlando di una congiuntura avversa che l’Italia condivide con il resto d’Europa, con chi ha rispettato il tetto del 3% nel rapporto tra debito e pil e con chi non lo ha rispettato. E’ un fattore esterno; per noi (come per tutti gli altri) rappresenta un dato di fatto.

Il primo ingrediente della fiducia è la capacità di una economia di rispettare i patti stretti con altri soggetti economici. Ogni scambio implica un contratto, ciò vale anche per la moneta che non si può stampare con la cornucopia perché il suo ammontare rispecchia sostanzialmente la taglia e l’andamento economico di un paese. Per non parlare di un titolo di debito come il buono del tesoro. Sulla fiducia si basano anche le agenzie di rating quando danno alla Francia due A e all’Italia tre B

A questo punto, e lo si è visto nel vertice di venerdì scorso, il governo comincia a dividersi. Da una parte il realismo di Tria, il quale consiglia di tenere i conti (e i nervi) saldi, accettare i vincoli per quel che sono e trovare al loro interno le scappatoie possibili: rimodulare l’Iva, anticipare in modo più o meno formale la riduzione delle imposte e il reddito di cittadinanza, giocare a Bruxelles la carta degli investimenti pubblici fuori dal calcolo del deficit e prendere tempo. Una buona manutenzione quest’anno, per mettere nuovo carburante l’anno prossimo. Il suo buon senso rassicura i risparmiatori italiani e stranieri. Ma a Salvini non basta e dalle sabbie di Milano Marittima si getta, come il saraceno Rodomonte, con ostentato disprezzo, contro ogni pericolo e avversità. “O facciamo la flat tax o andiamo tutti a casa”, dice il suo plenipotenziario Giorgetti non appena uscito dalla riunione di palazzo Chigi.

Non può essere da meno Di Maio che rilancia sul reddito di cittadinanza “da subito”, cioè inserendolo nella prossima legge di stabilità da presentare a settembre, mentre il ministro delle infrastrutture Toninelli si lancia contro la Tav, la Tap, passanti, pedemontane, autostrade e quant’altro. Il suo mantra è: manutenzione ordinaria niente grandi infrastrutture. Sia i partner europei sia gli operatori di borsa si chiedono: chi comanda? Non solo chi governa e come, ma chi esercita davvero l’esercizio del comando sulle scelte economiche, il ministro al quale è stata delegata la responsabilità, il capo del governo o i capi dei partiti? E chi tra loro conta di più? Sono domande senza risposta, per ora, ed è qui la fonte dell’incertezza.

Se le cose fossero chiare, sarebbe possibile entrare nel merito e chiedere quale investimento pubblico, in concreto, è possibile fare subito, visto che si vogliono bloccare quelli già in atto, e quale impatto, cifre alla mano, potrà avere sul pil. Oppure in che modo l’aumento del deficit rafforza la crescita e, di conseguenza, riduce il debito pubblico. Si può dimostrare che la flat tax si autofinanzia come sostengono i leghisti? E ancora: basandosi sull’esperienza passata e sul potenziale produttivo attuale, l’Italia può davvero garantire che ogni euro speso dallo stato produce due euro e mezzo (come promettono alcuni esponenti del governo)? Insomma, se fosse chiaro chi comanda, si potrebbe discutere sulle impostazioni che guidano le migliori menti del governo gialloverde. Se manca la premessa, invece, diventa impossibile capire che cosa accadrà nei prossimi mesi.

Incertezza, ancora incertezza. E non perché i neo-keynesiani duellano con la scuola di Chicago, ma perché Salvini e Di Maio smentiscono Tria a ogni intervista ferragostana. Forse sarebbe ora di smetterla. Dovrebbe capirlo chi vuole il bene del governo. E soprattutto chi vuole il bene del paese. Anche chi si augura che l’esperimento gialloverde fallisca e l’esecutivo cada il primo possibile, non potrà costruire nulla se restano solo macerie.

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