Il problema è che un’ opposizione, in democrazia, serve. Altrimenti sarebbe facile disinteressarsi delle vicende parallele del Partito Democratico e di Forza Italia che a sei mesi dalle elezioni ancora non trovano una direzione verso la quale orientare il timone.
Il problema è, anche, che non vorremmo vedere questo ruolo importantissimo – l’opposizione, appunto – delegato a personaggi come Pierre Moscovici, l’ex-braccio destro di Hollande sopravvissuto alla catastrofe del socialismo francese grazie a un incarico europeo, oppure il lussemburghese Jean Asselborn, ministro di una nazione grande quanto Genova nota perlopiù come paradiso fiscale.
Il problema, infine, è che forse dovremo rassegnarci: l’opposizione prossima ventura nascerà dopo le Europee, quando il corpo elettorale avrà debitamente sanzionato i calcoli piccini della vecchia sinistra e della vecchia destra consegnando entrambe al mondo dei puri spiriti dove li attendono la Dc, il Psi, il Pci, il Msi e tutti i loro antenati.
Il fallimento della settimana delle cene parla chiaro in proposito. Quella di Arcore, con Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, è finita in un nulla di fatto – né un chiaro accordo né una rottura – e quindi l’opposizione forzista se ne resta nel congelatore aspettando gli eventi.
La cena del Pd non c’è nemmeno stata. Carlo Calenda l’ha disdetta ieri usando parole durissime contro il partito a cui si era iscritto dopo la sconfitta del 4 marzo: «Sta diventando un posto in cui l’unico segretario che si dovrebbe candidare è il presidente dell’associazione di psichiatria». Così anche i democratici restano nel freezer, aspettando un congresso ancora senza data e tremando per la manifestazione del 30 settembre a Roma che rischia il flop o la contestazione plateale dei militanti.
L’opposizione, appunto – delegato a personaggi come Pierre Moscovici, l’ex-braccio destro di Hollande sopravvissuto alla catastrofe del socialismo francese grazie a un incarico europeo, oppure il lussemburghese Jean Asselborn, ministro di una nazione grande quanto Genova nota perlopiù come paradiso fiscale
Nel tramonto poco glorioso di questi due grandi partiti di potere c’è molta responsabilità delle classi dirigenti ma anche la controprova di una speciale fragilità italiana. Da noi i partiti di massa reggono finche possono garantire l’accesso agevolato a un’ecosistema che offre protezione e garanzie agli amici, dai bidelli ai concessionari di servizio pubblico. Il Pd e Forza Italia hanno conservato questo ruolo nell’ultimo ventennio anche quando non governavano: uno aveva comunque il territorio, le regioni, i grandi enti; l’altra le tv, un largo sistema mediatico, appendici nell’università e nell’impresa.
L’opposizione reciproca era una sorta di gioco codificato, un minuetto. Più che conflitto politico, un rubabandiera pieno di trucchi per spodestare l’avversario sfilandogli la maggioranza sotto i piedi: il primo governo Berlusconi cade perché la Lega si chiama fuori; il primo governo Prodi perché si sfila Fausto Bertinotti; il primo governo D’Alema per l’addio di Francesco Cossiga e del Cdu di Rocco Buttiglione; il secondo Berlusconi per la fuoriuscita di Udc, Nuovo Psi e An; il secondo Prodi per il ribaltone di Mastella; il terzo Berlusconi per la rottura con Gianfranco Fini. Il lavoro dell’opposizione ruotava tutto intorno a giochi di palazzo e nel Paese era delegato a soggetti terzi: il sindacato, le televisioni, la mobilitazione di specifiche categorie, i mercati, i magistrati, i giornali italiani e stranieri, che coltivavano idee e aprivano linee di conflitto.
Anche per questo è toccato a un outsider come Carlo Calenda il ruolo del bambino della favola, quello che grida alla folla «Ma il re è nudo», portando allo scoperto un dato chiaro: la classe dirigente del Pd non ha alcuna voglia di confrontarsi perché ognuno – e specialmente Matteo Renzi – è impegnato nella strenua difesa di una posizione personale
Due generazioni di politici sono cresciuti a questa scuola e adesso che l’ecosistema è in mano d’altri, che lo scudo di quel tipo di bipolarismo non esiste più, sembra davvero difficile che riescano a riconvertirsi a modalità diverse: semplicemente, non sanno da che parte cominciare.
Anche per questo è toccato a un outsider come Carlo Calenda il ruolo del bambino della favola, quello che grida alla folla «Ma il re è nudo», portando allo scoperto un dato chiaro: la classe dirigente del Pd non ha alcuna voglia di confrontarsi perché ognuno – e specialmente Matteo Renzi – è impegnato nella strenua difesa di una posizione personale.
Dall’altra parte, in Forza Italia, non c’è nemmeno un Calenda a porre la questione, la rassegnazione al travaso elettorale verso la Lega sembra definitiva. A questo tipo di silenzioso declino, che abbiamo già visto nelle storie di altri partiti, manca solo la certificazione del voto: poi come è ovvio – in politica i vuoti non esistono – si consoliderà qualcosa di nuovo.