Cento giorni in retromarcia: e ora il governo Lega-Cinque Stelle rischia di naufragare per mancanza di coraggio

Ora si torna indietro sui vaccini. Me c’era già stato il dietrofront sull’Europa. E tanti altri ne arriveranno. Il “governo del cambiamento” è legato non solo a stili, ma anche a interessi molto diversi. Che è difficile (se non impossibile) conciliare concretamente

Alberto PIZZOLI / AFP

Domenica prossima faranno cento giorni, ed è comprensibile l’improvvisa fretta del governo di Giuseppe Conte (e dei suoi vicepremier) di riporre in soffitta le promesse eccessive della campagna elettorale, il malmostoso conflitto con l’Europa e anche alcuni svarioni di inizio legislatura – come le modifiche ai vaccini obbligatori, cassate ieri – per ripiegare su provvedimenti più concretamente fattibili.

C’è urgenza di tornare con i piedi per terra, e soprattutto si intravede l’ansia di produrre provvedimenti nero su bianco dopo tante parole. Forse, più che il pressing dell’elettorato, ancora innamoratissimo, conta il peso psicologico del raffronto con precedenti stagioni e precedenti coalizioni. Tutte, anche le più fragili, dopo cento giorni avevano portato a casa almeno tre o quattro provvedimenti-bandiera, talvolta di impatto-choc come senz’altro furono gli 80 euro di Matteo Renzi.

È immaginabile, ad esempio, che Matteo Salvini soffra il paragone con l’esperienza dell’ultimo governo di Silvio Berlusconi, insediatosi nel maggio 2008, che nei primi tre mesi aveva abolito l’Ici, disseppellito Napoli dai rifiuti, varato la detassazione degli straordinari e prodotto nel campo dei diritti il testo della prima legge italiana contro lo stalking (che sarà approvata più tardi con voto bipartisan). E chissà se il M5S non si sente in imbarazzo nel ricordare l’azione iniziale di Paolo Gentiloni, uno che certo non aveva ambizioni rivoluzionarie ma in tre mesi aveva abolito i voucher, fatto un decreto per i risparmiatori truffati dalle banche, varato formalmente nuove linee-guida sull’immigrazione e affrontato l’emergenza terremoto con un decreto alquanto complesso.

La realtà obbliga a rovesciare il motto massimalista di tutte le rivoluzioni – “Siamo realisti, chiediamo l’impossibile” – per sostituirlo con progetti riformisti più cauti

Se le ambizioni del governo Conte si restringono, se dalla Flat Tax si passa all’ampliamento del sistema forfettario per le partite Iva, se dal reddito di cittadinanza si ritaglia un allargamento dell’attuale reddito di inclusione e se l’abolizione della Fornero diventa l’introduzione della Quota Cento è perché la realtà obbliga a rovesciare il motto massimalista di tutte le rivoluzioni – “Siamo realisti, chiediamo l’impossibile” – per sostituirlo con progetti riformisti più cauti e soprattutto da sfornare di corsa, senza i lunghi processi richiesti dalle innovazioni di sistema.

L’elettorato resterà deluso? È la speranza delle opposizioni, ma non è detto. Pure Berlusconi aveva promesso cose come la Robin Tax, che doveva levare ai ricchi e dare ai poveri, il calo del prezzo della benzina, l’abolizione del bollo auto e poi se le è dimenticate. Pure Renzi nel suo show di inizio legislatura con le slide si era impegnato per una riforma al mese, squadernando mirabolanti progetti, e si sa come è andata. Per tutti e due il consenso è lungamente sopravvissuto alla disillusione per l’archiviazione di misure molto attese da pezzi importanti del Paese e mai varate, o ridotte a una versione mignon.

Tuttavia, ci saranno cose che peseranno più di altre. Il mancato decreto per Genova, ad esempio, che dovrebbe dare un appiglio legislativo sicuro non solo ai genovesi senza casa ma anche alle aziende, al porto, all’intera città e più oltre al sistema-merci italiano di cui la Liguria è uno degli snodi. La destra governa la Regione e il Comune, e la rapidità con cui gli applausi al funerale si sono trasformati in contestazioni e accuse all’ultimo consiglio comunale è illuminante. Allo stesso modo, il M5S pagherà pegno se non riuscirà a dare qualcosa ai suoi elettori meridionali e se dalla manovra uscirà confermata l’idea di un esecutivo a trazione nordista nonostante i numeri assegnino maggior forza ai grillini.

Solo i fatti potranno dirci se la somma delle differenze tra Lega e M5S produrrà un risultato più alto del totale aritmetico oppure, al contrario, se quella distanza ideologica, strategica, culturale, alimenterà una nuova stagione di paralisi e di provvedimenti “al minimo”

Nella partita dei cento giorni, o dei centocinquanta (entro domenica prossima è difficile che emergano novità), la vera posta è tuttavia un’altra. Il Paese deve ancora capire se questa formula per noi assolutamente innovativa – un esecutivo fondato su un contratto scritto tra due forze avversarie e lontanissime – può funzionare oppure no.

Solo i fatti potranno dirci se la somma delle differenze tra Lega e M5S produrrà un risultato più alto del totale aritmetico oppure, al contrario, se quella distanza ideologica, strategica, culturale, alimenterà una nuova stagione di paralisi e di provvedimenti “al minimo” per non turbare equilibri. Arretrare rispetto a quel che si è promesso per necessità di bilancio, di risorse, di vincoli europei, è un conto – tutti i governi in fondo hanno avuto questi ostacoli, e le promesse stavolta erano davvero esorbitanti – ma fare marcia indietro perché misure più coraggiose porterebbero al litigio tra alleati, e non si vuole litigare fino alle elezioni Europee, ecco, questo l’Italia che ha votato il cambiamento non lo capirebbe.

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