Nell’ultima settimana ne abbiamo sentite di tutti i colori. Prima Matteo Salvini che, dalla festa di Atreju, davanti a una Giorgia Meloni in estasi e al cospetto di Enrico Mentana, ha avvertito Luigi Di Maio: «Il reddito di cittadinanza deve essere riservato solo ed esclusivamente ai cittadini italiani». La motivazione: «Di regali per coloro che italiani non sono se ne fanno anche troppi». Poche ore dopo è stato il turno di Massimo Baroni, deputato del M5s, che – se possibile – è riuscito a fare ancora peggio: «Metti il reddito di cittadinanza in Italia e vedi come iniziano a trombare tutti come ricci» ha twittato. Con tanto di GIF animata. E giù sorrisini sulla povertà e sulla battaglia per contrastarla. Per chiudere il cerchio, palla di nuovo alla Lega. Ma stavolta si entra nel merito. Matteo Guidesi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, spiega come il reddito di cittadinanza avrà una durata limitata nel tempo – tre anni – e, soprattutto, per ottenerlo si dovrà passare dalle forche caudine dell’Isee con il risultato, ad esempio, che chi possiede una casa di proprietà, di fatto, sarebbe escluso, avendo difficilmente un Isee minore al tetto che verrà messo, intorno 7-8mila euro annui (per il Rei è di 6mila euro).
Quindi, tutta la misura di «contrasto alla povertà», raccontata come epocale dal Movimento 5 stelle, di fatto sarebbe solo un reddito di inclusione aumentato nelle cifre, forse nella platea, ma che escluderebbe chi ha una casa di proprietà e chi non è nato italiano. Il tutto, per un massimo di tre anni. Poi, chi si è visto si è visto. Ecco perché mai come ora che il reddito di cittadinanza sta per essere messo nero su bianco nella prossima finanziaria, è necessario smontarlo pezzo per pezzo. E non per partito preso, ma come avvertimento: chiamare “reddito” un semplice incentivo all’occupazione rischia di annientare per sempre quello che poteva essere un possibile percorso per portare finalmente l’Italia in Europa.
Chiamare “reddito” un semplice incentivo all’occupazione rischia di annientare per sempre quello che poteva essere un possibile percorso per portare finalmente l’Italia in Europa
Uno dei punti «qualificanti» stabilito dalle risoluzioni europee e dalla Corte Europea per qualsiasi tipo di misura di sostegno al reddito è, infatti, la questione della residenza e non della cittadinanza come criterio di accesso. Punto di partenza è quindi la «non discriminazione» verso il beneficiario. In poche parole non si possono fare differenze tra due soggetti «egualmente in difficoltà economica». Si tratta di un principio basilare: ogni diritto è tale solo se può essere goduto da tutti coloro che ne hanno diritto. Senza alcun tipo di distinzione.
I criteri per il reddito minimo garantito sono stati stabiliti nell’ormai lontano 1992 dal Parlamento europeo e dalla Commissione europea. Tutto parte da un principio: nessun essere umano deve scivolare sotto la soglia di povertà (secondo Eurostat non meno del 60% del reddito mediano equivalente familiare disponibile, in Italia circa 830 euro mensili). Da lì in poi in Europa si sono succeduti una serie di interventi normativi volti a portare tutti i Paesi dell’Ue verso uno standard comune. Ma l’Italia fino a oggi si è sempre ben guardata dal legiferare in materia.
Il Movimento 5 stelle, per arrivare al reddito di cittadinanza, ha lasciato in questi mesi mano libera all’alleato di governo. E ora che è il suo momento per tirare in barca la rete, ancora piena solo di promesse elettorali, sono arrivate le condizioni di Matteo Salvini in primis che costringerà Di Maio e i suoi a rimettere mano alla loro proposta, cercando di escludere gli «stranieri» dal reddito di cittadinanza senza incappare nello stop della Corte Costituzionale o della Corte Europa. Una vera e propria missione impossibile visto che uno dei principi fondanti dell’Ue è il divieto di discriminazione fra i cittadini di uno Stato membro e gli altri cittadini comunitari sul suo territorio. Anche qualora riuscissero a destreggiarsi nei meandri dei regolamenti europei, inevitabilmente qualsiasi tipo di reddito di cittadinanza non potrà vedere esclusi tutti quei “non italiani” che risiedono in Italia da almeno cinque anni. Dopo tale lasso di tempo, infatti, si ottiene il diritto di risiedervi permanentemente. Sono, di fatto, italiani per quanto concerne i diritti.
Ma c’è un altro punto, forse ancora più importante, che dimostra come il reddito di cittadinanza del Movimento 5 stelle non sia assolutamente una forma di reddito minimo – come richiede da tempo l’Ue – ma, di fatto, una semplice indennità di disoccupazione. Un “super Rei”. La Relazione per la Risoluzione europea sul Coinvolgimento delle persone escluse dal mercato del lavoro dell’8 aprile 2009 prevede infatti che «chiunque deve poter disporre di un Reddito Minimo a prescindere dalla propria partecipazione al mercato del lavoro». La misura del Movimento 5 stelle tutto è tranne che una misura di welfare. Alla base, infatti, ci sono punti di puro workfare. In pratica chi non ha un lavoro – e non chi è semplicemente povero – deve mostrare allo Stato la propria voglia di lavorare. A qualunque costo. Perché una cosa è il reddito universale, individuale, incondizionato, sganciato dal ricatto del lavoro qualsiasi. Un’altra è un reddito erogato dietro condizioni fortemente lavoriste (e per un massimo di tre anni).
La misura del Movimento 5 stelle tutto è tranne che una misura di welfare. Alla base, infatti, ci sono punti di puro workfare. In pratica chi non ha un lavoro – e non chi è semplicemente povero – deve mostrare allo Stato la propria voglia di lavorare. A qualunque costo. Un vero reddito minimo, invece, non ha l’obiettivo di trovare un lavoro a chi un lavoro non lo ha ma quello di garantire un’esistenza dignitosa a tutte le persone
Il reddito di cittadinanza del Movimento 5 stelle parte basandosi sulla cifra degli ormai famosi 780 euro. Secondo l’Istat chi vive – da solo – con meno di questa cifra (anche se oggi la cifra è salita a 830 euro) è da considerare povero. Il problema è che la proposta prevede l’erogazione di un welfare non individuale, come dovrebbe essere un vero reddito di base, ma familiare. Per fare un esempio: se uno dei componenti della famiglia guadagna 1.000 euro al mese all’altro componente non spetterebbero 780 euro (come sarebbe in caso di welfare individuale e quindi di vero reddito minimo) ma solo 560. Secondo quanto previsto dalla proposta del reddito di cittadinanza, infatti, per stabilire la somma da erogare bisogna moltiplicare per il numero dei componenti (in questo caso due) la somma ‘base’ di 780 euro e poi integrare la parte rimanente. Quindi 780 x 2 – 1.000 (il reddito dell’altro componente). Risultato: 560 euro.
Ma la parte della proposta che fa del reddito di cittadinanza una misura di puro workfare è nelle regole che bisogna seguire per mantenere il diritto al sussidio, dal dover partecipare a «progetti gestiti dai comuni» e «utili alla collettività», mettendo a disposizione otto ore settimanali, all’impossibilità di rifiutare più di tre proposte di impiego ritenute «congrue». In mezzo, tutta una serie di adempimenti inderogabili – dall’obbligo di recarsi «almeno due volte al mese» presso i centri per l’impiego ai colloqui psicoattitudinali – dimostrano come il vero e unico obiettivo del Movimento 5 stelle non sia dotare l’Italia di un reddito minimo, ma semplicemente di riformare i centri per l’impiego e, in generale, le politiche attive del lavoro.
Un vero reddito minimo, invece, non ha l’obiettivo di trovare un lavoro a chi un lavoro non lo ha ma quello di garantire un’esistenza dignitosa a tutte le persone. Persone, e non famiglie. E non è un caso se – era il 24 ottobre 2017 – l’Europarlamento in sessione plenaria ha approvato una risoluzione, peraltro proposta dal gruppo Efdd – MoVimento 5 Stelle, che riprendeva l’articolo 34, terzo comma, della Carta dei Diritti dell’Unione Europea e la Raccomandazione della commissione europea del 3 ottobre 2008 (2007/867/CE) relativa all’inclusione attiva delle persone escluse dal mercato del lavoro. Con quel voto si invitarono i Paesi membri non solo a «introdurre regimi di reddito minimi adeguati» ma a «garantire l’accesso all’alloggio, all’assistenza sanitaria, all’istruzione e a fornire sostegno ai bambini, ai disoccupati, alle famiglie monoparentali, ai senzatetto». Un intervento a 360°, quindi, che parte dall’assenza di lavoro per arrivare alla garanzia di servizi sociali e a misure di contrasto alla povertà concrete.
L’invito dell’Europarlamento è (era) quindi a costruire un sistema integrato che, oltre all’erogazione del beneficio economico, preveda altre misure di welfare sociale e di servizi di qualità con il coordinamento tra gli organi preposti alla loro erogazione (Regioni e Comuni) per definire un ventaglio di interventi mirati e diversificati a seconda delle necessità e delle difficoltà della persona e che «mirano ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa». E non un posto di lavoro a tutti i costi.