È dal 1991 che la gente se lo chiede: ma “Losing My Religion” dei R.E.M. racconta una crisi spirituale? Magari una attraversata proprio dal cantante/autore Michael Stipe? Non proprio. Anzi. “Questa canzone non ha niente a che vedere con la religione”, spiega in una intervista.
E allora perché si parla di “religion”? È un modo di dire tipico del Sud degli Stati Uniti, una metafora per indicare qualcosa di clamoroso i cui effetti possono portare a enormi cambiamenti nelle idee e nelle abitudini delle persone. Tanto da, appunto “far perdere loro la religione”. Ma può riguardare qualsiasi cosa, si premura di precisare. Amore non corrisposto, o una convinzione di altra natura (ma la pista sentimentale è quella più promettente). In ogni caso deve essere forte, in grado di “trattenere, poi spingere di slancio, poi di ritrattenere, e di rilanciare ancora”.
E questa forza si dispiega in un testo bizzarro ed ellittico: perché l’autore “pensa di aver sentito la persona ridere”, o “cantare”? La risposta la dà sempre Stipe, in un’intervista in inglese ma sottotitolata in olandese (perfetta per i pochi che capiscono solo il secondo ma non il primo): “Volevo rappresentare la situazione di chi non non sa nemmeno se la persona che cerca di raggiungere sia consapevole del suo tentativo, o addirittura sia consapevole della sua esistenza”. Ma anche qui, le spiegazioni latitano. Forse ha detto troppo, forse non ha detto abbastanza.
Ciò che è sicuro, insomma, è che la canzone non parla di religione intesa in modo ufficiale. Ma in quanto a devozione, tormento interiore e volontà di trascendenza racconta qualcosa che ci somiglia molto.