Fate vedere a tutti “Sulla mia pelle”, al cinema, su Netflix, ovunque sia possibile

Il film di Alessio Cremonini, dedicato alla storia di Stefano Cucchi e interpretato da un bravissimo Alessandro Borghi è un film importante e da vedere, tutti. E chissenefrega se lo si fa al computer su Netflix, al cinema o in un centro sociale non autorizzato: il copyright se ne farà una ragione

Scrivere di un film come Sulla mia pelle, girato da Alessio Cremonini, interpretato da un Alessandro Borghi che toglie il fiato e dedicato alla terrificante vicenda della morte di Stefano Cucchi, avvenuta nell’ottobre del 2009 in seguito all’arresto, è particolarmente difficile, così come non è semplice vederlo. È difficile perché è un film che fa male, malissimo a ogni inquadratura. È perfettamente misurato, non è per niente retorico, non è né innocentista né colpevolista: è solo duro, come è dura la realtà delle storie di questo tipo, purtroppo non limitate a quella di Stefano Cucchi.

Non è facile, ma bisogna farlo. Bisogna dirlo che Cremonini, così come non si ripara e non nasconde nulla dietro a facili inquadrature o colonne sonore strappalacrime, nello stesso modo non risparmia nulla alla realtà e riesce a infilare in 140 minuti di film tutte le sfumature della violenza di cui trasuda questa storia. Bisogna dirlo che Alessandro Borghi è l’interprete perfetto per incarnare nel bene e nel male la fragilità e il dolore del protagonista. E bisogna anche concedere un plauso a Jasmine Trinca, Milva Marigliano e Max Tortora, altrettanto bravi a tenere insieme tutto quello che ci sta attorno a questa insopportabile tragedia.

Sulla mia pelle non è uno di quei film che mette in scena la violenza direttamente o se ne compiace. È un film discreto e piuttosto chiuso, come forse lo era il suo protagonista. È un film che fa già abbastanza male dentro da non avere nemmeno bisogno di mostrare il pestaggio subito da Cucchi da parte dei carabinieri che lo avevano arrestato. Non ne ha bisogno, probabilmente, anche perché la violenza di cui è testimone non si limita ad essere quella di due lavoratori dello Stato contro uno dei propri cittadini.

La violenza, in Sulla mia pelle, emerge e cola dappertutto: dai comportamenti al limite dell’autolesionismo di Stefano Cucchi, che per sfiducia, rabbia o paura copre davanti al giudice le colpe dei suoi aguzzini e rifiuta spesso di collaborare coi medici; dal senso di colpa della madre, che a un certo punto confessa di aver sperato che una notte in carcere sarebbe servita al figlio; dal timore del padre di intervenire durante la prima udienza per pretendere che si chieda al figlio quali siano le cause reali dei lividi che lo segnano.

Ma la vera violenza, quella che terrorizza ancora di più di quella dei due carabinieri, è quella della burocrazia, la violenza che parla il linguaggio della Struttura e che Cremonini è bravissimo a mettere in scena in molteplici sfumature. A questo proposito c’è una scena che più di tutte, nel suo essere kafkiana e grottesca, mette i brividi. Siamo nella prima parte del film. Cucchi è in cella e parla, o ha l’impressione di parlare, con un altro detenuto albanese che gli chiede il perché delle sue ferite e dei suoi lividi. A un certo punto, l’inquadratura si ferma su Stefano che urla: “Guardia!”, e insiste, e lo ripete, chiedendo aiuto per avere le sue medicine. Mentre il suo urlo rimbomba nel buio e l’inquadratura mostra quasi soltanto la sua sagoma, dall’altra parte del muro si sente una voce che gli spiega che finché chiamerà i secondini “guardie” nessuno arriverà, nemmeno se si impicca. Deve urlare “Assistente”.

La vera violenza, quella che terrorizza ancora di più di quella dei due carabinieri, è quella della burocrazia, la violenza che parla il linguaggio della Struttura e che Cremonini è bravissimo a mettere in scena in molteplici sfumature

E Cucchi lo fa. Così come i suoi genitori si piegano a tornare ogni volta alla porta dell’Ospedale dove loro figlio è detenuto, mentre ogni volta la burocrazia li allontana. Così come Ilaria, interpretata da Jasmine Trinca, quasi si vergogna di perdere la pazienza di fronte all’insistente assurdità delle procedure burocratiche che le vengono imposte solo per sapere qualche cosa del fratello. Perché lo fanno? Perché accettano l’assurda idiozia di un Stato che nasconde le proprie nefandezze sotto il tappeto del Regolamento e che tiene più al rispetto di stupide convenzioni piuttosto che alla salute e alla sicurezza dei suoi cittadini?

Difficile rispondere. Ma la questione deve essere per forza più complicata e più radicata di quella che sembra. Anche perché se no non si spiega come sia possibile che di fronte a un film così puro e potente, di fronte a una storia così ingiusta e terrificante, di fronte a una violenza e a una assurdità così gratuita e inquietante, la maggior parte delle polemiche che si stanno innescando riguardano le sue modalità di visione — sulla piattaforma di Netflix, in alcune sale cinematografiche e in altri modi non autorizzati, ma auto organizzati da associazioni e comitati che contro quella violenza combattono da anni.

C’è chi invoca la censura e la punizione contro chi si macchia della terribile colpa di diffondere, alla faccia del copyright, un documento così importante, che descrive in modo così potente il punto di degrado che ha raggiunto la giustizia in Italia. E a sentirli sembra di essere tornati in quella cella buia, di fronte a quell’uomo piegato dal dolore e dalla mostrificazione dello Stato, e che nessuno ascolta finché al posto di chiamare i suoi carcerieri “Guardie”, li chiama “Assistenti”.

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