“La letteratura italiana è morta. E oggi sono eletti a pilastri della cultura italiana dei non scrittori, degli asintattici, come Benigni e Saviano”. Entra così, a gamba tesa, l’economista Geminello Alvi, nella serata varesina, pungolato da Andrea Mascetti sul tema “Fenomenologia del presente”, a Ra Cà dur Barlich – che in dialetto significa “la casa del diavolo”, ma un diavoletto simpatico – il circolo culturale dell’associazione Terra Insubre, nel cuore della Lombardia. Controcorrente e senza cravatta, Geminello Alvi non ha bisogno di grandi presentazioni, è un polemista e un anticonformista di grande fama, un letterato e un eccentrico. È lui che firma, tra l’altro, la prefazione a un libro che fa rumore, Falce e carrello di Caprotti, il fu patron dell’Esselunga. È lui un ex assistente del governatore della Banca d’Italia. Visionario ed economista. Uno che legge la modernità e ci trova dentro la fine del mondo: «Sono uno studioso dell’Apocalisse, libro interminabile che sto continuando a leggere. Non ne scriverò mai niente, ma andrò avanti a studiarlo».
Cesare De Micheilis spiegò che, quando aveva iniziato a dedicarsi all’italianistica, esisteva ancora la letteratura italiana, c’erano ancora grandi poeti. In sostanza, il più scarso dei poeti di allora sarebbe stato un gigante, al giorno d’oggi
Il presente non è un tramonto, è già la fine: «Quello di cui mi occupo – spiega Alvi – è l’apocalittica fenomenologia del presente. Mi viene in mente la figura di Cesare De Michelis, fratello dell’ex ministro e, soprattutto, un mio caro amico. Era un grande editore, che riusciva a riunire insieme i talenti mercantili del Veneto ad un velo di sapienza, che in altre case editrici non ci sono. Quando terminò la sua carriera accademica all’Università, si congedò facendo un’analisi realista sul destino della lingua italiana». Un destino di desolazione, la constatazione di un decesso, secondo Alvi: «Spiegò che, quando aveva iniziato a dedicarsi all’italianistica, esisteva ancora la letteratura italiana, c’erano ancora grandi poeti. In sostanza, il più scarso dei poeti di allora sarebbe stato un gigante, al giorno d’oggi. E quindi concluse dicendo che, nel momento in cui si ritirava dalla sua carriera, doveva constatare che la letteratura italiana non esisteva più». Geminello Alvi non vuole lisciare il pelo a nessuno, ama la provocazione energica, incisiva: «Sicuramente è una posizione provocatoria, ma, per qualunque persona che coltivi nell’anima la bellezza della lingua italiana, è evidente il vuoto nel quale ci troviamo oggi. Dove degli asintattici come Benigni e come Saviano vengono considerati pilastri della cultura». La decadenza della nostra società, anzi della nostra civiltà sarebbe meglio dire, avviene, secondo Alvi, anche attraverso i nuovi media, internet in primis.
«La rete dà il diritto a tutti di sentirsi uguali a tutti. È la fiera dell’equalizzazione, per questo piace ai comunisti. È quello che mancava all’economia sovietica». La nostra società, secondo lo studioso, sta soffrendo chiaramente anche per un’abissale caduta dei valori. Non esiste più l’onore, sepolto da una civiltà di vigliacchi. «Stiamo creando una civiltà di vigliacchi – spiega, tranchant– dove nessuno sa più cosa sia l’onore, cosa sia la verità. Nessuno oggi morirebbe per la verità o per l’onore. Non per niente, non si fanno più duelli».
Il capitale è un meccanismo impersonale che sta distruggendo tutto. Porta avanti un processo si spersonalizzazione a tutti i livelli, processo che lo Stato asseconda. E tutte le persone finiranno per essere asservite come dei lemuri
L’abbassamento culturale, ma anche l’eccessiva importanza attribuita ai “nuovi miti”, agli “idoli” che, in una vera società, si sgonfierebbero di importanza, si scioglierebbero come neve al sole. «Siamo ormai la società dei luoghi comuni detti da persone indegne. Quando vedo che Bono degli U2 va dal Papa, penso: ma cosa rappresenta? Chi è Bono? E va pure a lamentarsi sui migranti…».
Geminello Alvi risale quindi alla sorgente del male che impesta, secondo la sua visione, la nostra società. Ovvero, la centralità del capitale. «Il capitale è un meccanismo impersonale che sta distruggendo tutto. Porta avanti un processo si spersonalizzazione a tutti i livelli, processo che lo Stato asseconda. E tutte le persone finiranno per essere asservite come dei lemuri». Il capitale crea anche persone che non portano particolari contributi all’elevazione della società. E cita Sergio Marchionne, «che era il funzionario di questo meccanismo. Niente di più, non ha portato nulla alla società, se non servire il capitale».