Hosseini e Saviano fanno patetico pietismo, se vi affascina il mondo afghano leggete Bitani

Il bastone e la carota. Un libro stroncato e uno elogiato alla settimana. "Preghiera del mare" è piacione e pacchiano, l'introduzione di Saviano è ancora peggio. Se siete stanchi del pantano buonista leggete le Fiabe di Moresco e "L’ultimo lenzuolo bianco" di Farhad Bitani

Il bastone. “Oggi la storia chiede a tutti noi – adulti e bambini – di essere migliori di quello che siamo, di essere più grandi dell’epoca buia che stiamo vivendo”. Pare un discorso di Winston Churchill, eventualmente in versione filmica, quello de L’ora più buia. Invece, è Roberto Saviano, pontifex maximus del pensiero perbenista, che ha smesso di fare lo scrittore, ora è un oratore, si fregia di fare il capopopolo. “Ecco la prova che la storia ci chiede: essere all’altezza di questa sfida e fare, ciascuno, la propria parte”. Da che pulpito parla Saviano, quello dell’Onu? Magari ci arriverà, per il momento si accontenta di firmare l’intro del libro piacione e pacchiano e patetico di Khaled Hosseini, Preghiera del mare, “dedicato alle migliaia di rifugiati che sono deceduti in mare mentre fuggivano dalla guerra e dalle persecuzioni”. Ora. Uno scrittore bada al peso specifico delle parole. Per questo, perché limitarsi alla parola rifugiati, alla pietà per i rifugiati? Se uno muore in mare – o per strada o in una prigione o sulla costa – nel tentativo di fuggire, molto più banalmente, dalla povertà, dalla tristezza patria, è degno di eguale dedica e preghiera. Ma torniamo a Saviano.

Di quale “sfida” parla Bobby il Giusto? A quale “epoca buia” allude? Insomma, siamo seri. Sopra le nostre teste non rombano cacciabombardieri, possiamo serenamente andare al supermercato senza il pericolo che un cecchino ci faccia saltare il cervello, siamo tutti piuttosto abbienti da poterci spaparanzare sul divano in attesa del reddito di cittadinanza: il frigorifero e l’acqua calda sono beni di lusso diventati comuni, anche se mangiamo tanta merda, in fondo, ci permettiamo pure un paio di bistecche la settimana. Questa è un’epoca aurea altro che buia, poche palle. Piuttosto. La “sfida” qual è? Quella dell’accoglienza sconsiderata? Benissimo. Eccoci qui, caro Bobby. Noi poveracci, da uomo a uomo, senza considerare provenienza né sapienza, diamo un tocco di cibo e qualche euro a chiunque ci bussa alla porta, siamo figli del Vangelo e dell’etica greca, mica vigliacchi che predicano bene e razzolano nell’ovvio. Ma non è questo il problema, e tu, Bob il Pavone, ci offendi un poco trattandoci come vili razzisti.

Io, personalmente, sono razzista nei confronti di chi piega la letteratura a proclama biecamente politico – non esiste la letteratura umanitaria: per essere “umanitari” basta aiutare i sofferenti, che siano i “rifugiati” o la vecchia di fronte a casa. La favola di Hosseini, depurata delle crudeltà del “genere’”(leggete Andersen, vi prego), disneyana, è una menzogna. Non basta scrivere “bambini che piangono e donne che si lamentano in lingue che non conosciamo” per farmi pervadere dal dolore; non basta scrivere “sono afghani e somali, iracheni, eritrei e siriani… Siamo alla ricerca di una nuova patria” per farmi capire la sofferenza, come non basta scrivere delle “mucche che pascolavano in un campo cosparso di fiori selvatici” per fare esistere quelle mucche, se non mi fai sentire l’odore della vacca, la barbarie dei pastori, il fastidio delle mosche.

La letteratura non appiana le differenze, le evidenzia; la letteratura non nega il mostro, ne fa sentire l’alito; la letteratura non è utile, è rivoltante. Ma questa, appunto, non è letteratura, è politica: Saviano si candida a diventare Ministro per i Rifugiati e Hosseini diventerà, chissà, Nobel per la pace – quello per la letteratura neppure gli svedesi benpensanti glielo potrebbero dare, non ardiscono a tanto. Questa, ripeto, offeso, non è letteratura, ma politica. Basta titillare i dettagli. I diritti del libretto – fatto per obnubilare le menti dei figli dei già rimbambiti genitori – sono della ‘The Khaled Hosseini Foundation’. Andate a visitare il sito relativo, è qui: www.khaledhosseinifoundation.org. Sulla home page c’è una scritta in evidenza, “Donate”. Cliccateci sopra. Potete pagare con PayPal o con carta di credito. Potete dare quello che volete. I soldi servono, così scrivono, per “fornire assistenza umanitaria e rifugio alle famiglie, opportunità economiche alle donne, assistenza sanitaria e istruzione ai bambini in Afghanistan”. Meglio se pagate dai 365 (“Dollar-a-Day Supporter”) ai 5mila dollari (“Life Giver”).

C’è anche una pagina dove potete fare shopping comprando monili – orecchini, borsette, bracciali – afghani. Sullo sfondo, di solito, a mo’ di scenografia – onore al vero – compaiono i libri di Hosseini. Nelle fotografie, Hosseini ha un profilo californiano e distinto, è ritratto di fianco ai poveri di quel lato di mondo. Questa non è letteratura, è politica. Con le donazioni dovrebbero aprire case editrici: la grande letteratura fa la Storia, i cattivi letterati si diano alla pratica elettorale.

Khaled Hosseini, Preghiera del mare, a cura di Roberto Saviano, Sem, 2018, pp.56, euro 15,00

La carota. Il fatto è doppio. Da una parte è una questione di ‘genere’. Khaled Hosseini con Preghiera del mare sputtana la fiaba intorbidandola nel pantano buonista. In realtà, uno degli aspetti fondamentali della fiaba è che non nega nulla, è una finestra sui torbidi dell’animo umano; non liofilizza il male, lo espone. La fiaba, per sua natura, è crudele. Che sia quella dei Grimm – leggete la funambolica traduzione di Tommaso Landolfi, leggete Pidocchietto e pulcetta, con quel finale terribile, “e nell’acqua sono annegati tutti”, vorrei un Landolfi a decrittare narrativamente la tragedia dei migranti… – o quella di Andersen, il succo è lo stesso: interrogativi capitali (“Perché non abbiamo un’anima immortale?”, domanda la Sirenetta, che non c’entra con lo scemo avatar disneyano), un agone con la morte, con i morti, scartavetrando il velo dell’aldilà.

D’altra parte, basta leggere Le avventure di Pinocchio per capire la “violenza che percorre tutta la novella, di cui Collodi si è fatto trascrittore, quella violenza che affonda le sue radici in una cultura contadina, atavica, da cui deriviamo tutti noi, e a cui dunque appartiene il nostro inconscio collettivo, e in una ferocia tutta e solo italiana”, come ha scritto Fabrizio Coscia in una recente lettura, assai persuasiva. Tacitare il male, silenziare la violenza con il ricino perbenista ha un solo effetto: evocare una violenza quadrupla, quadrupede. Se vi interessa il genere fiabesco, con tutti i crismi, le spine e le ustioni, affidatevi, oggi, ad Antonio Moresco, che ha ri-scritto le sua Fiabe da proprio per l’editore (Sem) che malauguratamente stampa il libro elettorale di Hosseini (per far soldi). Il secondo aspetto è l’informazione. I ragazzi, i bambini, hanno bisogno di conoscere. I popoli non sono tutti uguali, una nazione non equivale all’altra, una cultura non è sovrapponibile alla seguente, in un pasticcio relativista dove siamo ‘tutti amici, tutti lo stesso’.

Esempio. Pochi giorni fa un libraio mi mostra Afghanistan, ultimo silenzio, denso reportage firmato da Riccardo Varvelli nel 1966. Certo, il libro è storicamente datato, ma il rombo narrativo unito a una sontuosa perizia antropologica (“c’è la saggezza di chi ha sempre voluto amministrarsi da sé, la calma di chi si sente forte perché ha dimostrato di esserlo, il retaggio di un lungo isolamento fra nazioni ostili che si manifesta nella mancanza di una industria autonoma, nella carenza di conoscenze scientifiche, nella povertà di movimenti e di patrimonio intellettuale”) sono ancora efficaci.

Il carisma editoriale, poi, è assoluto: per lo stesso marchio (De Donato), in quella collana, uscivano clamorosi classici del viaggio e della scoperta come Ore giapponesi e Segreto Tibet di Fosco Maraini e I mille fuochi. Dal Sahara al Congo di Folco Quilici. Libri di sorprendente freschezza, che invogliavano i ragazzi di ieri alla scoperta: perché non riproporre imprese editoriali simili? Per altro, se siete affascinati dal mondo afghano, più che affidarvi al patetico pietismo di Hosseini, leggete L’ultimo lenzuolo bianco di Farhad Bitani, scritto dal figlio di un generale afghano ora in Italia. L’amore commosso per quel lembo d’Asia non è indulgente verso l’orrore, non estingue la voce di fronte alla brutalità fondamentalista.

Antonio Moresco, Fiabe da, Sem, 2017, pp.268, euro 18,00 (con le illustrazioni di Nicola Samorì)

Farhad Bitani, L’ultimo lenzuolo bianco. L’inferno e il cuore dell’Afghanistan, Guaraldi, 2014

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