Il bastone. La cosa più accattivante sono i ritagli di giornale – rigorosamente tratti dal Resto del Carlino – che dal 24 luglio 1943 (“Rilevanti forze avversarie respinte nella piana di Catania”) al 2 dicembre 1943 (strillo che ghiaccia gli occhi: “Gli ebrei residenti in Italia avviati ai campi di concentramento”), narrano la disfatta e la sfida, l’Armistizio e il delirio che ne segue, l’incipit della ‘guerra civile’ italiana. La nuda cronaca di quell’era livida dovrebbe gasare la fecondia immaginativa dello scrittore, invece il ritorno del commissario De Luca (protagonista di alcuni libri tra i più celebri di Lucarelli, come Via delle Oche) è di quadrupede noia. Il commissario, mentre la Storia italiana si sgretola, indaga su un corpo ritrovato senza testa e poi su una testa senza corpo e fin da subito si sa, non ci vuole molto, che il colpevole è il cattivo fascistone, il “commissario capo” Fratojanni, che pensa di rifarsi le tasche al sole della Repubblica Sociale Italiana (“Il console generale ci darà una mano per conto del nuovo Partito Fascista Repubblicano e con la massima fiducia dell’alleato tedesco. Trasferimenti, assegnazioni… eccetera”). Nel mezzo c’è un ebreo fu fascista costretto a subire le leggi razziali, il dottor Ravenna (“…ho fatto la Marcia su Roma. Ho dato le mie fedi nel ’35, oro alla patria… e invece dello Sabbath facevo il Sabato Fascista, in camicia nera”), le “fossette che Lorenza”, la tipa di De Luca, “aveva all’attaccatura delle natiche”, che producono sapide eccitazioni al commissario, una ninfetta, Vera Gales, pardon, Veronica Karagiannis, che indossava “una sottoveste molto corta, nera, con un orlo di pizzi su cui giocava con le dita” (indagata), qualche personaggio di contorno, scontornato banalmente, qualche squarcio bolognese e poco altro. Solo che. Non basta sussurrare la parola magica ‘Mussolini’ per farci immergere nel Ventennio allo sfascio: la scenografia allestita da Lucarelli, megafoni, fronzoli politici, pistole calienti, comunisti piazzaioli, è vaga, fasulla, la quinta scema di una fiction italiana, pallosa. D’altronde, lo dice anche lui, Lucarelli, che dedica il romanzo a “Severino, amico mio” (nome che, incrociato alla sfilata dei Ringraziamenti, fa supporre appartenga al compianto Cesari): il romanzo è una pacchiana imitazione, “ho usato la forma narrativa dell’hard boiled alla Raymond Chandler… e ancora di più, come stile, ho cercato di avvicinarmi a quello che considero il mio maestro, Giorgio Scerbanenco”, ma quando mai, magari (a chi s’interessa di simili amenità, nel romanzo è citato pure l’“investigatore grasso, che mangia sempre”, Nero Wolfe). Verrebbe da dire, piuttosto. Con una Storia come quella lì, che si snoda dal ’43 in poi, di vendette e di fratricidi, di traditori e di leccapiedi, in Italia dovremmo avere un James Ellroy (a volare basso), invece ci tocca Lucarelli, la Fata madrina del romanzo di genere, che è ancora lì a costruire velieri con i fiammiferi, nella boccia di vetro, a tirare d’uncinetto: affabulatore reazionario, scrittore passatista, non fa esplodere il ‘genere’ nel degenere e nell’ingenerato, in una germinazione narrativa letale, fecale, totale. Il ritmo romanzesco di Carlo Lucarelli, sorta di Liala del ‘giallo all’italiana’, è quello, fumettoso, del suo avatar televisivo (“C’era un molo sul canale Cavaticcio…”; “C’era un asse di traverso alla poppa…”: ritmo da ‘presa diretta’ che intontisce i conventuali del genere). Avete presente la formidabile imitazione di Lucarelli che fece Fabio De Luigi, con quel refrain, “paura, eh” (la “paura”, qui, solitaria, tra due capoversi, appare in tutto il suo splendore a pagina 125)? Ecco, è più divertente lui del commissario De Luca e del suo creatore, il bilioso Carlo. Probabilmente Peccato mortale funzionerebbe meglio come audiolibro, letto da Lucarelli o da De Luigi – come favola per la buona notte.
Carlo Lucarelli, Peccato mortale, Einaudi 2018, pp.256, euro 17,50
Non basta sussurrare la parola magica “Mussolini” per farci immergere nel Ventennio allo sfascio: la scenografia allestita da Lucarelli, megafoni, fronzoli politici, pistole calienti, comunisti piazzaioli, è vaga, fasulla, la quinta scema di una fiction italiana, pallosa
La carota. Le letture sono quelle buone, verticali – dice di essersi ispirato a Beppe Fenoglio e a Vasilij Grossman – il motore narrativo gira bene, la storia, poi, la storia è fenomenale, mette in scena un controeroe definitivo e agonizzante che sarebbe piaciuto a Curzio Malaparte. La storia comincia nel tardo febbraio del 1945, quando un uomo, destinato alla pena di morte, comincia la sua claustrofobica confessione con una frase devastante, “Ho tradito tutti”. Nato nel 1919 in provincia di Mantova, Uber Pulga non è un personaggio di fantasia, è sangue, scheletro e cuore immacolato nell’oblio. Alessandro Carlini, giornalista e coraggioso evocatore di vicende ‘maledette’, raccoglie le prime testimonianze della storia di Pulga da un cugino. Poi s’inoltra nella vicenda pazzesca del lontano parente, Uber: soldato spietato nei Balcani (“Il suo è un addestramento continuo, si tiene all’erta contro il nemico che lo aspetta da qualche parte”), nel 1943 accoglie l’Armistizio in Sardegna, al seguito del XII battaglione dei paracadutisti Nembo. Lui e i suoi optano per la fatale coerenza: “hanno scelto di combattere ancora coi nazisti, si sono ammutinati… non sono più soldati, ma pirati”. Educato dalle SS ad attività di spionaggio tra le file partigiane (“non ti puoi arrenderti, devi ammazzarti prima”), Uber disinnesca una azione dei ‘resistenti’, ne uccide alcuni. Quando Mussolini in persona, nel gennaio del 1945, però, lo premia con il grado di sottotenente, Uber comprende la fine di un mondo, l’eccidio delle utopie: stringe la mano del Duce, ne è sconvolto, “è gelida”, più morta di quella di tutti i morti che ha visto in quegli anni. Da allora, per poco, Uber Pulga si affilia ai partigiani: quando viene beccato dagli antichi compari, i repubblichini, “viene condannato alla fucilazione per diserzione e arruolamento nelle file dei banditi”. Esito: Uber Pulga è martire partigiano ed eroe fascista, l’emblema della contraddizione della ‘guerra civile’ italiana, icona dello smarrimento, precipizio nel nichilismo. Con Pulga muore il disordinato desiderio italiano di gloria. Carlini non ha le ambizioni di Lucarelli, non scimmiotta Fenoglio, non s’imbriglia nel ‘giallo all’italiana’: ha sale in testa (“quel giovane… apparteneva a una generazione maledetta dalla guerra e dall’ideologia, una generazione che non è sopravvissuta a quegli anni, una generazione che ha contribuito a creare l’Italia di oggi”), scrive un libro violento e onesto, un libro di storia in forma narrativa, trascinante, una superba indagine nelle viscere del tradimento e della rettitudine. Di fronte alla storia di Pulga – sempre estremo nelle sue scelte sbagliate – si resta con le labbra di legno, confusi, senza assoluzioni, al colmo della pietà. Di certo, il romanzo dell’Armistizio e del caos, è questo: al confronto di Pulga, il commissario De Luca è pappa per galline, vanto dei galletti.
Alessandro Carlini, Partigiano in camicia nera, Chiarelettere 2017, pp.174, euro 16,00