Come donna, mi si nota di più se parlo bene del povero Zanza o se ne parlo male? Fa più effetto se commemoro con gli occhi lucidi la scomparsa dell’ultimo «chiavator cortese», «der Super-Pappagallo von Rimini», come lo chiamava la Bild negli anni d’oro, o se lo ricordo con la fredda e compiaciuta sufficienza che si riserva a un vecchio idolo fallico che si è visto interrompere l’ultimo coito dal Tristo Mietitore? Nel dubbio, metto per ora da parte le questioni di genere e parlerò da riminese: qui la morte di Zanza è uno choc. Una perdita vera. Un lutto cittadino che va ben oltre il cartello appeso sulla saracinesca chiusa della pescheria di famiglia, dove Maurizio Zanfanti aiutava ancora la mamma anziana insieme ai fratelli.
Un dolore sentito, sincero, mica come quando è morto Fellini, che qui non l’hanno mai capito veramente, e comunque a vent’anni aveva preferito Roma. Zanza, ecco, quello è il genio che qui a Rimini tutti sono in grado di comprendere, di ammirare, di omaggiare senza ipocrisia, con il cappello in mano. E di invidiare sia in vita che in morte, quella che tanti uomini sognano: fra le braccia di una ragazza di quarant’anni più giovane. Magari non in una macchina in una strada di campagna a ridosso dell’A14. Soprattutto, non a sessantatré anni, ma un po’ più tardi. Un bel po’ più tardi.
Un dolore sentito, sincero, mica come quando è morto Fellini, che qui non l’hanno mai capito veramente, e comunque a vent’anni aveva preferito Roma
Grazie al Viagra, i sessanta sono i nuovi trenta: la Riviera pullula di pensionati ben portanti che, a forza di studiare e confrontare le composizioni degli «aiutini» chimici, potrebbero laurearsi in farmacia, se non fossero troppo indaffarati a sperimentarne gli effetti sul campo, anche con le coetanee, fra un torneo di burraco e una gara di ballo. «La mia vita sono le donne, ne ho ancora tante che non so dove buttarle,» ha confessato recentemente Paolo Cima, in arte Zizzì, dieci anni in più di Zanza ma stesso curriculum, solo dislocato un po’ più a nord, a Torre Pedrera, distante qualche chilometro dalle leggendarie «quattro sorelle» – il Carnaby, lo Chic, il Life e il Blow Up, le discoteche di viale Regina Elena in cui impazzava la buonanima. Capello lungo (grigio), una faccia che ai maligni ricorda un po’ il Wrestler di Mickey Rourke, catene d’oro di prammatica, benvoluto da tutti, ora è Zizzì «l’ultimo dei vitelloni» e può permettersi di snobbare l’invito di Caterina Balivo nel salotto Rai di «Vieni da me»: «Ma venite voi da me, se volete, io me ne sto qui!».
Ma il segreto non stava nella moto, nella macchina, nei capelli alla Drupi o nei petti villosi che oggi verrebbero riformati alla visita instagram-militare per insufficienza toracica. Non stava nel soprannome con due zeta, due come nel sinonimo più volgare e conosciuto per «membro maschile»
Zizzì è l’unico a custodire il segreto del «birro», il manzo da spiaggia formato esportazione che ha reso Rimini famosa nel mondo, facendone per almeno vent’anni una delle poche Mecche del turismo sessuale al femminile. Dalla Germania, dall’Inghilterra, dalla Scandinavia, e perfino dall’America e dall’Australia, disinibite fanciulle venivano qui con il preciso obiettivo di fare l’amore con i giovani indigeni, ragazzi senza nulla di speciale, se non essere sempre allegri e disponibili, capelluti e ingioiellati, provvisti di macchine, moto vistose e nickname con almeno due zeta.
Ma il segreto non stava nella moto, nella macchina, nei capelli alla Drupi o nei petti villosi che oggi verrebbero riformati alla visita instagram-militare per insufficienza toracica. Non stava nel soprannome con due zeta, due come nel sinonimo più volgare e conosciuto per «membro maschile». E non stava nemmeno nel membro, anche se indubbiamente doveva essere come minimo super-efficiente per tenere il ritmo delle due-tre ragazze a notte per tutta una stagione. Anzi, forse il «birro» romagnolo è proprio una sfinge senza segreto, come le donne secondo Oscar Wilde. O, per meglio dire: l’unico segreto è non averne nessuno, e lasciar fare a loro, alle donne. «Quando ti sei fatto un nome, le donne sono così: quando ne hai una ne hai due, tre, quattro, cinque. Se non ce ne hai neanche una, non ce ne hai neanche una», teorizza l’immarcescibile Zizzì. «Vogliono provare com’è,» spiegava Zanza alla Bild, all’apice della fama, concludendo filosoficamente: «Keine Probleme».
Ma nella Rimini pre-tondelliana degli anni Settanta-Ottanta non c’era Mirabilandia, e nemmeno Aquafan. A dare qualche minuto di su-e-giù da brivido alle turiste straniere c’erano Zanza e compagni
Nessun problema. Provare com’è. Come un giro sul Katun di Mirabilandia, «l’inverter coaster più lungo d’Europa». Ma nella Rimini pre-tondelliana degli anni Settanta-Ottanta non c’era Mirabilandia, e nemmeno Aquafan. A dare qualche minuto di su-e-giù da brivido alle turiste straniere c’erano Zanza e compagni. E quando Sigrid, Gerda e Inge scendevano dalla sex-machine capelluta, felici e un po’ stazzonate, lo raccontavano alle amiche, che poi provavano a loro volta e lo raccontavano ad altre amiche, finché non si capiva più se c’era più gusto a farlo o a raccontarlo.
Fatto sta che le spiagge erano piene di giorno e di notte e gli alberghi facevano il tutto esaurito. «Credo di aver fatto più io per la promozione turistica di Rimini che certe agenzie,» diceva Zanza, e non esagerava. Lo provano i servizi sui giornali di mezza Europa, le lettere amichevoli, gli inviti per l’inverno in Svezia o in Germania, le foto-ricordo tenute sul comodino in qualche paesino vicino al circolo polare.
Zanza stesso raccontava di aver ricevuto visite di sue vecchie fiamme accompagnate dalle figlie, «ma con le figlie ho solo parlato», precisava lui, «birro» ma con una sua deontologia
Pare sia successo davvero, a turisti riminesi in vacanza in Nord Europa, di ritrovare il ritratto di Zanza in casa di qualche indigena, o di vedersi offrire da bere da una barista memore delle sue scorribande giovanili in Riviera. Zanza stesso raccontava di aver ricevuto visite di sue vecchie fiamme accompagnate dalle figlie, «ma con le figlie ho solo parlato», precisava lui, «birro» ma con una sua deontologia.
E a proposito di deontologia, è ora di ritornare alla domanda iniziale: come parlare di uno come Zanza, nell’epoca di #metoo? Ci provo a sfoderare gli artigli, ma mi si afflosciano, disarmati. Maurizio Zanfanti non ha mai molestato o aggredito nessuna. Non era nemmeno di quelli che scarrozzavano la turista in moto e poi «o me la dai o torni a piedi». Scapolo e senza figli, non gli si può nemmeno rimproverare di aver cornificato una moglie o abbandonato qualche creatura. Nelle sue tante partner – tutte donne nordiche e, all’epoca, ben più emancipate delle italiane – ha lasciato solo buoni ricordi. Negli ultimi anni gestiva un bar e dava una mano fra i banchi del pesce, contento di quel che aveva avuto e che ancora aveva, e dell’aura mitica che persisteva intorno al suo nome. Anziché lagnarsi sui social che oggi non si tromba più perché si sta solo sui social, lui trombava. E non con una rimorchiata in rete o con Tinder: con una ragazza cui prima aveva telefonato. Molto più giovane di lui, certo, ma largamente maggiorenne.
Niente da fare: il pistolotto moralistico proprio non mi viene. «E’ dei perfidi la morte/alla vita sempre ugual», sentenzia Leporello alla fine del Don Giovanni, quando il suo padrone sprofonda all’inferno. Ma in questo «dramma giocoso» il finale è diverso: l’ultima destinazione di Zanza, né perfido né, (tecnicamente) dongiovanni, potrebbe essere il Paradiso. Mentre all’inferno ci siamo già noi, Leporelli ambosessi con lo smartphone in mano.