Libera in Goal: a Scampia il calcio diventa uno strumento di emancipazione femminile

Un reportage dal torneo “Libera in Goal” di Scampia. Una ragazza per squadra, alla ricerca di un posto riconosciuto nella società e di un futuro lontano dai luoghi comuni di un luogo tristemente famoso

Per regola, in campo ci deve essere almeno una femmina per squadra. E mica tutte le squadre che partecipano al torneo si sono prese la briga di rispettare questa minima quota rosa forzata. Così Maria si è ritrovata a fare il jolly indossando almeno tre casacche diverse. Una faticaccia, per chi in questi anni di militanza nella sua Dream Team ha fatto della costruzione dell’identità di squadra il proprio credo. Ma si sa: se lo spirito di sacrificio avesse un genere, sarebbe molto probabilmente quello femminile. Alla settima edizione di Libera in Goal, torneo di calcio a 5 organizzato dall’associazione VoDiSca (Voci di Scampia) in collaborazione con Libera Campania e Rime (Responsabilità, impegno, memoria, educazione) di Trieste, la Dream Team Arci Scampia era l’unica squadra completamente al femminile. Un piccolo battaglione bianco e rosso di ragazze dai 12 ai 24 anni pronte a mettere in campo il frutto del loro impegno settimanale, costruito allenamento dopo allenamento.

L’associazione Dream Team è una rete di cooperative sociali, consorzi e società che operano nel sociale con un occhio di attenzione ai progetti di genere, in aree urbane particolarmente degradate del Comune di Napoli tra cui, ovviamente, Scampia. E proprio qui, grazie alla scuola calcio Arciscampia, è nata questa squadra di ragazze che da quattro anni lavorano duro per conquistarsi uno spazio non solo in campo. Si tratta di ritagliarsi, infatti, anche un posto riconosciuto nella società. Giovanna, sguardo verde e serio, vuole fare l’infermiera. Antonella “la vecchia”, 24 anni, studia biologia anche se sogna di fare il carabiniere nel suo quartiere e Maria, che frequenta scienze dell’educazione, lavora come baby sitter e nel tempo libero va in associazione ad affiancare le tutor, «perché ormai ho poco tempo per giocare e voglio davvero lasciare spazio alle più giovani». Come dice Rosario Esposito La Rossa, fondatore dell’associazione VodiSca, «qui stiamo rallentando l’infanzia delle future generazioni, questo è il nostro progetto di vita». Quel “qui” è sempre Scampia, luogo dove si cresce in fretta, dove i maschi credono che fare lo spacciatore sia un mestiere e a 17 anni hanno la testa di uno di 30 e le femmine si sostituiscono alle madri che lavorano, prendendosi cura dei fratelli più piccoli, benché siano esse stesse delle bambine.

E il calcio? Per i ragazzi è il sogno della vita, all’inseguimento del mito. Per le ragazze troppo spesso un’illusione. Per Maria, invece, è «rispetto, disciplina e educazione, perché nel momento in cui manca una di queste tre cose la squadra non funziona». Ci crede così fermamente da averlo trasmesso alle sue “piccole” compagne di squadra: uscite dal campo dopo un’amara sconfitta che le elimina dalle fasi finali del torneo, le ragazze della Dream Team si mettono in cerchio nel prato a bordo campo, con i visi contratti dalla delusione ma sforzandosi di trovare i gesti e le parole giuste per incoraggiarsi l’un l’altra. Alcuni maschi delle squadre eliminate vanno a muso duro in spogliatoio. Le ragazze, invece, danno il via al tacito rituale di fine partita. Si prendono le mani e cominciano a togliersi a vicenda lo scotch arrotolato intorno alle dita per proteggere lo smalto colorato, vezzo irrinunciabile anche per alcune di loro. Educazione, disciplina e rispetto, tre parole a cui si affianca l’audacia delle singole calciatrici che si mettono a disposizione dell’agonismo delle squadre composte da maschi pronti a escluderle totalmente dal gioco se non in momenti di stretta necessità.

«Loro hanno un egoistico desiderio di far gol, piuttosto che la volontà di fare gruppo», silura Maria senza giri di parole. Verità che però s’incrina, durante Libera in Goal, all’interno di alcune squadre fuori dai canoni. Sono arrivate da Udine, percorrendo in camper quasi 900 km per partecipare a questo torneo ma anche per rendere viva un’esperienza di viaggio. Sono Arci BarSport, formazione nata dalla collaborazione tra un circolo Arci di Udine e una residenza riabilitativa e la Marangoni 105, alla sua terza partecipazione al torneo, composta da operatori e ospiti della residenza psichiatrica di via Marangoni 105 a Udine, alla quale si sono uniti ex utenti e appassionati. Qui lo spirito di squadra non fa difetto, ad attraversare l’Italia sono stati una trentina e non tutti per giocare ma taluni anche per fare gruppo e sostenere le due formazioni. Tra loro diverse ragazze, alcune ex calciatrici che hanno conosciuto questa realtà innamorandosi dell’idea di fondo, altre amiche che ne hanno sentito parlare e, ovviamente, alcune utenti. L’idea è la creazione di un’alternativa all’istituzionalizzazione di uno status di malattia psichiatrica attraverso le attività pensate dagli operatori, tra cui la nascita della squadra di calcio e la creazione di un circolo formato dai residenti stessi. L’idea è traslare alcuni aspetti del lavoro quotidiano come l’educazione alla cura di sé, alla capacità di costruire relazioni, al vivere e condividere esperienze di gruppo, dall’essere direttive istituzionali a diventare gesti attivati spontaneamente.

È così che Maria Laura si è ritagliata un posto in squadra senza che nessuno battesse ciglio. Lei è ospite della residenza di via Marangoni da qualche mese, è l’ultima arrivata e da subito ha preso parte agli allenamenti che ogni lunedì impegnano il gruppo. «Quando ero più piccola facevo atletica, adesso sono fuori forma ma ho scoperto che giocare a calcio mi piace». In campo sta davanti, sa proteggere benissimo la palla e non ha paura di tirare. Sabrina, ventisette anni e alcuni esami di psicologia in curriculum, invece, quest’anno ha deciso di non giocare (alla sua prima partecipazione aveva vinto il premio “Nemesi” per aver lei, udinese, fatto un goal a una squadra di Trieste) e di fare solo il tifo. «Mi disturbano i batteri e il sudore mi fa schifo – ammette senza vergogna – e quindi ho deciso che se devo faticare lo faccio solo se mi pagano». I fronzoli qui non sono ammessi, si accetta solo la schiettezza. In altre parole, l’essere sé stessi. Dogma che vale anche per gli “altri”, quelli e quelle che a queste squadre si sono avvicinati nel tempo senza nulla avere a che fare con l’ambiente psichiatrico. Come Chiara, che con la sua esperienza ventennale di calciatrice anche di serie A è diventato un pilastro della squadra Arci BarSport. Né in campo né fuori le manda a dire a nessuno: in quel rettangolo si è tutti componenti di una squadra, non ci sono femmine o maschi, utenti o operatori, esistono solo i ruoli per trovare l’equilibrio perfetto, tra un’imprecazione e uno scatto verso la porta.

A vincere il torneo proprio contro BarSport, però, è Jamme Ja, una squadra formata da minori che stanno seguendo percorsi di giustizia. Indovinate un po’? Sì, è una delle squadre che si è presentata senza femmine ma che senza la presenza del “jolly” Maria non sarebbe nemmeno potuta scendere in campo. Il cammino è tracciato, ma di strada ce n’è ancora da fare.

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