Dunque, forse ci sarà un pranzo. E questo pranzo sarà a casa di Carlo Calenda, e a tavola ci potrebbero essere Matteo Renzi, Marco Minnitti e Paolo Gentiloni. Sono stati convocati da un pubblico invito di Giuliano Da Empoli, corredato da una profezia piuttosto minacciosa: «La Storia non sarà clemente con i quattro leader, che condividono la stessa linea politica, se per ragioni egoistiche non riusciranno a impedire la deriva del Pd perso l’irrilevanza e la soggezione al M5S». E tuttavia la storia al momento se ne frega e va avanti per conto suo.
La storia ci racconta, ad esempio, degli applausi al professor Paolo Savona a Lecce, alle “Giornate del lavoro” organizzate dalla Cgil, dove si è scoperto che il ministro degli Affari Europei – sicuro liberale, accademico e grand commis Bankitalia, Iri, Confindustria, diavolo segnato a vista nelle giornate della costituzione del governo – parla un linguaggio assai gradito alla sinistra, persino la sinistra “antica” del sindacato. Certo, Savona è stato furbo. Ha citato Luciano Lama e Keynes, ma aveva preso molti applausi anche due giorni prima alla festa di Liberi & Uguali a Torino, Proxima, dove si era confrontato con vecchie volpi dei palchi e del linguaggio progressista come Sergio Chiamparino e Stefano Fassina.
È il terzo caso di applausi che stupiscono dopo quelli di Genova a Matteo Salvini e Luigi di Maio e della Festa dell’Unità di Ravenna a Roberto Fico, e stavolta sarà difficile attribuirlo alle claque mobilitate dai partiti di governo o ad atti di generica cortesia per l’ospite. Complicato anche ridurre la questione, come dice Da Empoli, a una sudditanza psicologica al Movimento Cinque Stelle: Paolo Savona non è uomo loro, anzi il suo incarico figura in quota Lega, quindi in diretto collegamento con l’arcinemico principale. Insomma è uno che nella celebre copertina dell’Espresso su «Uomini e no» sta dalla parte del «no» e a sinistra dovrebbe suscitare solo sospetto se non disprezzo.
La demonizzazione, l’evocazione dello Stato autoritario, della caduta democratica, del fascismo, è una strategia che non funziona più nemmeno con le platee della Cgil, figuriamoci nel resto del Paese
L’idea generale che viene fuori dal confronto tra questi pranzi e questi bagni di folla è che mentre l’elite del Pd cerca soluzioni per un accordo congressuale quegli altri, gli avversari, non solo il M5S ma anche il mondo leghista, stiano sfilandogli il tappeto sotto i piedi. Attraversano i confini, si spingono dietro le linee, parlano alle persone fregandosene della loro appartenenza, squadernano la loro critica alla globalizzazione e all’Europa davanti a un mondo che da tempo non aspettava altro e si è stancato di attendere che la sua parte si svegli, capisca, si esprima. Le «ragioni egoistiche» delle leadership di sinistra sono state senz’altro un problema, ma si tratta di un problema di ieri. Quello di oggi è molto più complicato. Ruota intorni a questioni di contenuti e insieme all’inefficacia degli antichi riflessi pavloviani con cui la sinistra ha sempre contrastato gli avversari potenti: la demonizzazione, l’evocazione dello Stato autoritario, della caduta democratica, del fascismo, è una strategia che non funziona più nemmeno con le platee della Cgil, figuriamoci nel resto del Paese.
Il problema peggiorerà col tempo. Se nell’estate del Caso Diciotti è stato facile distinguere il «noi» e «loro» sulla base dei principi umanitari che tra i progressisti restano primo richiamo identitario, nell’autunno del reddito di cittadinanza, delle modifiche alla Fornero, del condono – insomma dell’economia e del probabile braccio di ferro con l’Europa – si camminerà sul ghiaccio: col governo gialloverde non si potrà stare, anche se propone misure molto popolari. Ma sarà rischioso anche sposare la causa del benpensantismo europeista, dove emergono matti come il lussemburghese Jean Asselborn, quello che parla di «metodi fascisti» perchè Salvini ha ripreso e postato una pubblica discussione con lui, o il Moscovici dei “piccoli Mussolini”.
La Storia, insomma, potrebbe essere poco clemente con la litigiosità interna dei capicorrente del Pd, ma quel che non perdonerà davvero sarà l’incapacità collettiva di esprimere un pensiero strutturato su questi tempi nuovi e sulle aspettative del suo elettorato, per giunta su un terreno dove l’analisi della sinistra dovrebbe essere avanguardia e invece appare scavalcata dagli uomini della concorrenza che con certi tipi di critiche – al capitalismo, alle èlites conservatrici, alle diseguaglianze – dovrebbero avere assai meno dimestichezza.